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 2022  novembre 02 Mercoledì calendario

L’autobiografia di Bono Vox

Una biografia che inizia con un battito, non può che essere segnata dal ritmo e in «Surrender» la vita cola dalle canzoni scritte da Bono, la rockstar che ha incrociato la storia.
Quaranta brani per altrettanti viaggi dentro una band fin troppo grande per reggere tutta l’elettricità che ha attraversato: il libro, edito da Mondadori, non è il racconto di un successo, è lo sforzo costante di rimanere veri pure appesi ai muri del mondo. Non è l’epopea degli U2, è il percorso di un uomo che si tormenta ancora per una foto in cui ride con Putin, al G8 di Genova, «prima che lui diventasse il male». Ma non senza che lo fosse già.
Contraddizioni e sorprese e slanci, soprattutto musica. «Surrender» è il manuale delle istruzioni che spiega perché certe parole restano, certi ritornelli definiscono una generazione, certe chitarre squarciano le ansie. Il rock sa fare la rivoluzione perché ha il potere di ribaltare gli stereotipi e di mettere allo scoperto i sentimenti custoditi da ognuno nell’attesa che qualcun altro chieda di condividerli. Il qualcuno di Bono arriva quasi subito e non si sposta più. «Surrender» incrocia capi di Stato, geni dell’arte, uomini importanti, filantropi e miliardari, ma gira intorno a una persona sola, la moglie Ali, con lui per 40 anni: «Anche se ora viviamo sotto lo stesso tetto, mi rendo conto che rimane una distanza fra noi. Una distanza entusiasmante. Una distanza carica di tensione che Ali mi sta insegnando a rispettare». La scrittura procede con lo stesso schema, Bono si apre e poi si sottrae di continuo e si aiuta con gli schizzi che lui stesso ha disegnato all’inizio di ogni capitolo e con infinite liste. Le canzoni da ascoltare durante il primo tour (domina il punk e del resto siamo alla fine degli Anni Settanta), gli amici da non dimenticare, quelli che «ti aprono la Fiat 127 con intenzioni dadaiste» ovvero trasformare la vecchia auto sfondata dai chilometri in un oggetto di culto per celebrare le vendite del primo singolo. L’intimità è accennata e poi negata da un’esistenza che non è solo pubblica, è addirittura collettiva. Se «Songs of Innocence» libera la malinconia per la madre morta quando il cantante era un ragazzino, «mi sarei concesso di sollevare pietre sotto le quali sapevo di trovare spaventosi insetti striscianti», subito dopo si va entro «Sunday Bloody Sunday» dove l’unico strumento che serve è la batteria. Il rock si fa rabbia per rivelare la natura più essenziale e il libro mescola di nuovo, in modalità centrifuga, la storia personale a quella universale. È Larry, il batterista che ha dato vita al gruppo con il suo annuncio sulla bacheca del liceo, è Larry che testa la percussione dei «troubles», è la tournée che segnerà la svolta e pure il confronto con le tensioni di Irlanda, paese in cui «ai cuori più gentili toccano i colpi più micidiali». Anni dopo arriveranno anche le minacce dell’Ira solo che in queste 500 pagine di ricordi, la linearità del tempo è continuamente interrotta dagli assoli e la canzone che porta gli U2 in un’altra dimensione è anche quella che segna il loro legame con la politica, che li sposta dal palco al comizio e li costringe a inventarsi una posizione mai vista prima, l’equilibrismo sulla spontaneità. «Sunday Bloody Sunday» è una necessità, esce dopo al morte di Bobby Sands, dà fastidio a entrambe le fazioni, rischia di essere considerata una trovata pubblicitaria e porta il gruppo in testa alla classifica e al meglio della loro espressione perché è solo con quelle note, nella lucidità del testo, che ognuno trova la definizione del proprio talento. Si scoprono bravi, potenti, vedono e toccano l’effetto che fanno e a quel punto la biografia impazzisce come lo zabaione quando non smetti di frustare. Non si sa più se è il 1983, anno in cui la canzona circola o il 2015, con la tappe americane tipo adunate e i guai della lontanissima Europa al centro del Texas o il 1985, al concerto dove Bono taglia la bandiera irlandese davanti al pubblico in estasi: via l’arancione e via il verde, rimane solo il bianco, la pace. Due ore dopo lui è in auto con la moglie e viene circondato: «Qualcosa si era rotto. Eravamo pesci nell’acquario, e i piranha dall’altra parte del vetro erano stati fan degli U2 fino a poche ore prima».
Da quel punto in poi si fluttua fra le intuizioni (come far rotolare bottiglie sulle piastrelle per un suono stonato e indispensabile) e gli incontri. Hollywood, il cinema, gli anni a Los Angeles «con il vantaggio di non saper ballare», Bill Clinton e le coperte cucite insieme per manifestare sostegno ai malati di Aids, Nelson Mandela per ridare linfa ai gesti, «il carnevale degli Anni Novanta». Righe e sonorità accartocciate, quando il rock puro si fa elettrico per reggere le storture della realtà. E Bono che vuole mixare e gli altri che non intendono seguire, ancora in bilico tra genuinità e bisogno di mutare ed essere tutto quello che una band planetaria rappresenta. Essere al tavolo dei potenti come voce della folla e ritrovarsi a ridere con Putin al G8 di Genova nello stesso giorno in cui muore Carlo Giuliani. Scoprire quanto è difficile non perdersi e quanto una moglie magnetica faccia la differenza. Restare accesi quando ti dicono che al tuo cuore manca un pezzo. Restare fedeli anche quando hai stravolto ogni credo, grazie al rock. Chi lo sa suonare può incrociare la storia e impedire che entri in casa. Può farsi battezzare senza un dio, può illuminare le parole giuste e tatuarle nella memoria della gente.
«Surrender» non è la biografia di Bono, è l’anatomia della musica che trasforma un’emozione personale in una passione globale: «Gli amati fratelli ci camminano attorno e sopra. Forse sono felici che tu abbia abbandonato la tua vecchia storia, ma questo non significa che la dimenticheranno». —