la Repubblica, 2 novembre 2022
Intervista a Zerocalcare
Discutere con Michele Rech, conosciuto da ogni italiano come il disegnatore Zerocalcare e vissuto come un fratello maggiore da quelli sotto i trent’anni, non è cosa facile. Non si fa trovare dove ti aspetti e le sue risposte non sono mai scontate. Soprattutto se la prima domanda è quella, inevitabile, da cui partiamo.
Il decreto contro i rave. Molti giuristi la ritengono una norma dalle maglie troppo larghe, sotto la quale può finire represso anche il dissenso. Da chi manifesta in strada per l’ambiente a chi occupa uno stabile. Dobbiamo preoccuparci?
«Ovviamente sì, è una cosa molto grave e pericolosa. Ma storco il naso di fronte ai tanti che si indignano in queste ore. Io ci vedo una continuità con i decreti Salvini, di cui tutti ricordiamo le norme che criminalizzavano le Ong. Pochi invece rammentano il fatto che venivano pesantemente colpiti anche i blocchi stradali, con pene altissime. Quando sono stati smontati i decreti Salvini, quelle norme sono rimaste in piedi. In questo Paese le norme repressive si sedimentano e si sovrappongono e a tutti, alla fine, fa comodo chiudere gli spazi di dissenso quando si arriva al potere».
Qualcuno ha voluto vedere una coincidenza simbolica tra le manganellate alla Sapienza e l’avvio del governo Meloni in Parlamento. Che ne pensi?
«Non penso a una coincidenza voluta, nel senso che non credo che qualcuno del governo abbia dato l’ordine di picchiare. Ma c’è una coincidenza politica. Nel senso che quello che sta succedendo, dal decreto anti-rave alla repressione della manifestazione alla Sapienza, fa parte di una direzione che questo Paese sta prendendo. Sono episodi figli di una chiusura autoritaria che ha prodotto quel risultato elettorale».
In questa chiusura sui diritti civili ci metti anche il fine pena mai, il no alla revisione dell’ergastolo ostativo?
«Sì, la destra fa la destra anche su questo. Il problema, semmai, è la sinistra».
Una sinistra affezionata al carcere?
«Sono trent’anni che la sinistra parla del carcere solo per dire che Berlusconi deve andare in galera.
Una cultura progressista si dovrebbe porre il tema di superare la visione del carcere come unica soluzione a tutto. Perché la galera produce sempre altra delinquenza, recidiva, alienazione».
Questa cultura securitaria e “carceraria” è anche responsabilità dei grillini?
«Sì, senza dubbio. Ma all’inizio è nata a sinistra, sulla questione dell’antiberlusconismo. I grillini si sono accodati dopo, ma è stata la sinistra a dimenticarsi per prima che certi valori erano patrimonio storico della cultura progressista».
Qualche anno fa ti sei appassionato alla vicenda della fabbrica ex Penicillina occupata a Roma da migranti e senzatetto.
Sgombrata e sempre rioccupata.
Adesso, in teoria, le norme anti-rave potrebbe portare incarcere gli occupanti?
«Temo di sì e, come loro, anche i liceali che occupano la scuola o un centro sociale. È la fotografia del Paese. Gli occupanti della ex Penicillina, in assenza di alternative fornite dal comune di Roma, hannorioccupato uno stabile a via del Frantoio e due settimane fa sono stati sgombrati anche da lì.
Indovinate dove torneranno adesso? È un loop continuo, un gioco dei quattro cantoni fatto sulla pelle dei poveracci, senza che nessuno siprenda la responsabilità di trovare una soluzione umana e politica».
Giorgia Meloni e l’antifascismo.
Dimenticando Gobetti e Calamandrei, per la premier l’antifascismo è solo quello con la chiave inglese. Perché la racconta così?
«Perché è la sua storia. Quella di Meloni è una comunità politica che, al di là di come si atteggia davanti alle telecamere, è in piena continuità con il neofascismo degli anni Settanta. Una volta giunta alla fine della traversata, non mi stupisce che si tolga i suoi sassolini dalle scarpe. È il solito vittimismo.
Raccontano la storia come fa comodo a loro, dimenticando che, in quegli anni, i neofascisti mettevano le bombe sui treni e nelle stazioni d’accordo con i servizi segreti».
Sono tornati a prima di Fini, rinnegando Fiuggi?
«Non mi sembra che ci sia questa vocazione al superamento del fascismo. Mi sembra invece che alcune parole pronunciate in questi giorni sono state rassicuranti solo per chi voleva sentirsi rassicurato.
La verità è che il codice linguistico è sempre quello, senza cesura…La nazione sovrana, i patrioti…. Èuna comunità politica, lo ripeto, che non cederà un’unghia su questo. Del resto non ha motivo di farlo, visto che nessuno glielo chiede».
Alla Fabbrica del Vapore di Milano il 15 dicembre si apre la tua personale.
“Dopo il botto”, è il titolo. Nella locandina si vede un asteroide colpire la città, una metafora del Covid. Cosa è cambiato?
«La pandemia ha avuto un impatto drammatico anche sulle reti sociali, sulle reti politiche e persino su quelle affettive. È stato un evento estremamente divisivo e siamo ancora fermi lì. È impossibile ragionare, me ne accorgo anche nei miei eventi dal vivo quando qualcuno solleva il tema».
Come mai è impossibile ricucire questa frattura?
«Non so, forse ha a che fare con il fatto che le persone, chiuse in casa, si sono formate la loro opinione sui social. E questo ha portato a una sorta di jihad contrapposte tra “complici della dittatura” e “untori del virus”. Le lacerazioni sono molto profonde. Nella mostra c’è la mia vita di questi anni, c’è il conflitto. E, naturalmente, c’è anche un riflesso di questo».
Michele, tu oggi hai paura?
«Io sono bianco, sono maschio e faccio parte dei privilegiati. Sarebbe ridicolo se ti dicessi che ho paura per me. Ma ci sono tutta una serie di soggettività che hanno motivo di preoccuparsi. Ma non per questo governo in particolare. È il Paese che è cambiato e questo governo di destra ne è solo la conseguenza».