Corriere della Sera, 2 novembre 2022
Gigi Proietti raccontato da Emilia Costantini
«Ciao core!», mi accoglieva sempre disponibile e sorridente quando lo chiamavo per annunciare i suoi nuovi progetti artistici. E alcuni anni fa, quando si diceva spesso che a Milano funzionava tutto alla perfezione, mentre a Roma era un vero bordello, gli chiesi cosa ne pensasse e lui, tranquillo nella sua romanità, rispose: «Beh, certo, è vero: a Milano funziona tutto bene, ma... è grande quanto l’Eur!». Poi aggiungeva con una punta di polemica: «Noi non ci rendiamo conto di quello che abbiamo intorno e mi fa male che non sia una Capitale amata. Ai francesi vaje a tocca’ Parigi! A Roma i problemi ci sono sempre stati, ma da Roma nun me ne voglio anna’».
Gigi Proietti, un mattatore a 360 gradi, capace di riempire gli stadi e conosciuto dal vasto pubblico soprattutto come attore comico, in realtà è artisticamente nato nell’avanguardia degli anni Sessanta, nel teatro sperimentale delle «cantine romane», come lui amava sottolineare, insieme ad Antonio Calenda, Piera Degli Esposti, Giancarlo Cobelli. «Con il gruppo 101 recitavamo in un ex deposito di scope e dopo lo spettacolo c’era il “dibbbbbattito” co’ trecento b». Quando arriva il successo, i suoi spettacoli, puntualmente accolti da un tripudio di applausi, erano una garanzia per gli spettatori: sapevano che si sarebbero divertiti dalla prima all’ultima battuta, lasciando altrove problemi e affanni. Il suo principale obiettivo era di dare alla sua platea la certezza di scegliere, con lui, una serata diversa, fuori di casa e lontano dalla solita televisione.
Però, il pubblico era talmente abituato ai suoi exploit comici che, quando si cimentava in performance più impegnate, non sempre veniva accolto con il dovuto entusiasmo. Quella volta, per esempio, che accettò di fare la voce recitante nel «Cantico delle creature» nell’Abbazia di Fossanova, «una roba concettuale – mi raccontò – sulle note di un musicista molto impegnato, Goffredo Petrassi, ma che certo non è un compositore di canzonette», dopo la sua suite, uscì fuori dall’eremo per fumarsi in pace una sigaretta. Nel buio si sentì chiamare: «pss… pss… Proietti!» e scorse due tizi che gli si avvicinarono: un ambulante che vendeva bibite e un posteggiatore. Gigi, credendo che avessero assistito alla sua esibizione, chiese loro se fosse piaciuta. Uno dei due gli puntò il dito contro, intimandogli perentorio: «Mai più, eh? Mai più!». E l’altro aggiunse, riferendosi agli ideatori della serata, compreso il musicista: «Lasciali perde’ ‘sti fiji de ‘na mignotta: te rovinano!». Insomma, capì che non era piaciuta.
Eppure, colui che sarebbe diventato uno degli attori teatrali, e non solo, più amati, non era stato arso dal sacro fuoco del palcoscenico ed era insofferente all’etichetta di venire considerato l’erede petroliniano. «Come diceva Petrolini di sé stesso, io non discendo da nessuno, ma solo dalle scale di casa mia». Tuttavia, più volte aveva reso omaggio al creatore di «Chicchignola», al suo sarcasmo caustico, spingendosi nel repertorio dei «Salamini», «Gastone», «Nerone», «Ti ha piaciato?», reinventando la propria maschera comica.
Luigi Proietti, detto Gigi, era nato al Tufello, nella periferia romana del dopoguerra, tra case popolari e oratorio, in una famiglia modesta. Il padre faceva «l’impiegatuccio» ed era solito ripetergli: «Piove o tira vento, prendi lo stipendiuccio e la tredicesima». La mamma era casalinga, ma la vena artistica forse l’aveva ereditata proprio dal nonno materno che, pur facendo il pecoraio, era un poeta. Per mantenersi agli studi (una laurea in Giurisprudenza appesa al chiodo: «E meno male! Come avvocato sarei stato un disastro!») Gigi cantava nei night con un gruppetto di amici: «Cominciavo alle 10 di sera e finivo alle 4 di mattina, uscivo fuori con un collo gonfio... non c’era misura di camicia che tenesse, ce voleva un copertone!». Quando si andò a esibire nelle piscine del Foro Italico, conobbe Sagitta Alter, la compagna di vita, la donna che gli ha dato due figlie, Susanna e Carlotta. Lei, svedese, faceva la hostess, accompagnava i turisti in giro per monumenti e la sera li portava lì a prendere il fresco e a sentire musica. Tra loro scattò la scintilla, ballando l’Hully Gully.
Il clic della passione scenica scatta con «Il Dio Kurt» di Alberto Moravia: un successo inaspettato grazie al quale si rese conto che, forse, poteva campare di questo mestiere. La svolta arrivò quando Garinei e Giovannini lo scelsero per «Alleluja brava gente» al Sistina, accanto a Rascel. Una botta di fortuna, per lui: prendeva il posto di Domenico Modugno che aveva litigato con il celebre Renato Ranucci. Ma rammentava, divertito, che Giovannini passava tutte le sere nel suo camerino e gli intimava scherzando: «Stai attento! Ti abbiamo creato e ti distruggiamo!». Fu allora che comprese la possibilità di coniugare il teatro ludico con la qualità artistica: il cosiddetto teatro popolare. Un genere che Proietti ha in seguito consacrato con «A me gli occhi please»: per la prima volta realizzava un recital con parole, musica, canzonacce, nel teatro tenda di piazzale Clodio che, all’epoca, si utilizzava per il circo. E una delle prime volte che si esibiva in un ambiente così dispersivo, dove ancora non utilizzava gli schermi per ingrandire la sua immagine, appena si aprì il sipario uno spettatore, dal fondo della sconfinata platea, vedendolo piccolo piccolo sul palcoscenico, gli urlò: «A Giggi! Mandace ‘na foto!».
Non solo smisurato protagonista che, quando doveva accontentare i fan incontrati per strada, era «diventato un lavoro: prima l’autografo, poi la foto, poi chiamano col cellulare un parente a casa, di solito la mamma, e te la passano al telefono», Gigi è stato anche maestro nella sua bottega teatrale, creata mentre era direttore artistico del Brancaccio, dove sono nati, tra gli altri, i talenti di Enrico Brignano, Flavio Insinna, Francesca Reggiani. Un carisma, il suo, che si declinerà nel «genio e sregolatezza» dell’Edmund Kean, interpretandolo al Globe Theatre: lo splendido spazio scenico shakespeariano, realizzato dalla tenace cocciutaggine di Gigi nel cuore di Villa Borghese nel 2003, da lui diretto fino alla sua scomparsa e ora a lui intitolato. «Qui nun se ride», avvertiva gli spettatori. Eppure l’autoironia da consumato mattatore non mancava nella messinscena: metteva a nudo l’essenza tragicomica di un autentico animale da palcoscenico, rivelava tutti i difetti, le manie di grandezza, le frustrazioni, gli immancabili birignao che fanno di Kean una figura autentica. Grande fu l’emozione quando sedeva in platea il Presidente Mattarella: «La parte la conosco bene ma, siccome recito da solo per due ore, non vorrei che proprio stasera me scordo qualche battuta».
Chissà come Gigi avrebbe commentato il crollo di una scala esterna proprio del Globe, nel settembre scorso, mentre era affollato da studenti. Aveva fortemente voluto quel teatro ed era riuscito a realizzarlo con la complicità dell’allora sindaco Veltroni. Certamente avrebbe provato un dolore profondo, come quello che tutti hanno provato quando, all’alba del 2 novembre 2020, l’attore, che proprio quel giorno avrebbe compiuto 80 anni, ha definitivamente spento le luci della «sua» scena, lasciando un vuoto incolmabile. E pensare che, data l’età, nei mesi precedenti aveva preannunciato il titolo del suo prossimo spettacolo: «A me gli occhiali, please».