Corriere della Sera, 2 novembre 2022
La missione possible di Vitaly Plyaka per salvare i feriti di Mariupol
Sembrava lo script di un film d’azione senza realismo: «Elicotteri ucraini raggiungono Mariupol sotto assedio per portare munizioni e evacuare feriti». Impossibile. Avrebbe voluto dire superare radar, contraerea, jet e bombardieri sempre in volo più un cordone di mezzi blindati e cannoni schierati attorno alla città. Infine sopravvivere alle bombe che cadevano in continuazione sull’acciaieria Azovstal diventata l’ultimo fortino. Invece è successo. Non una, ma sei volte. Non con uno ma con due o cinque elicotteri alla volta. Ci sono i video a dimostrarlo. Vitaly Plyaka, 51 anni, pilota di uno di quei voli, racconta al Corriere quella che è tra le imprese più audaci della storia militare.
«Mi hanno chiamato per una missione top secret il 27 marzo. Al briefing incontro colleghi che mi raccontano di aver volato dentro Mariupol. “Bravissimi” dico io. “Tranquillo, domani ci vai tu”».
Una follia?
«In effetti quasi impossibile. Tanto più che l’intelligence sapeva che i russi avevano visto le missioni precedenti e spostato la contraerea per riceverci. Sarebbe stato un massacro. Ho studiato le nuove postazioni, la rotta, l’ordine dello stormo. Ho cominciato ad avere paura solo quando ho acceso il rotore. Fino a quel momento non avevo avuto tempo».
Quindi?
«La mia era la terza missione. Dovevamo fare cento chilometri in territorio ostile, sopra un fronte attivo e un cordone d’assedio. Due elicotteri solamente. Dalla quarta i colleghi hanno cominciato ad incassare colpi e alla quinta un elicottero è stato abbattuto, alla sesta uno abbattuto più un secondo di soccorso a sua volta intercettato. Ai comandi dell’elicottero di ricerca e soccorso c’era il secondo pilota del mio velivolo, un amico. Ancora non so se sia vivo o morto».
Come avete fatto a non farvi abbattere?
«Siamo stati a distanza dalla contraerea. Partenza alle 6 del mattino con due elicotteri Mil Mi-8 con visori notturni. Velocità: 220 chilometri all’ora con punte a 250. Quote di volo: 10 metri dal suolo. Vuol dire sfiorare i pali della luce e dribblare gli elettrodotti, però chi è a terra non riesce ad intercettarci, appena ci sente o ci vede siamo già fuori tiro. Una volta arrivati sul Mare di Azov siamo scesi a tre metri. Si sentivano gli schizzi».
Eppure, lei non aveva particolari vantaggi: ha frequentato l’Accademia sovietica, ha lo stesso addestramento e lo stesso elicottero dei suoi nemici di oggi.
«Penso che siano tre le ragioni per cui sono ancora vivo. Uno, il fattore sorpresa, non si aspettavano che osassimo tanto. Due, noi sapevamo dov’era la loro contraerea e, tre, siamo più bravi».
Perché andare a Mariupol?
«Per evacuare i feriti e portare armi e rinforzi, soprattutto parà. Restavamo a terra tra i 7 e i 10 minuti all’interno del complesso dell’Azovstal. Ogni elicottero in punti diversi. Tutto organizzato e veloce».
Ne valeva la pena?
«Era un ordine, non potevo discutere. Però sì e non solo per i feriti che abbiamo portato in salvo. Qualcuno ancora mi scrive per ringraziarmi. Ma soprattutto siamo stati utili a chi restava. Senza di noi nessuno sarebbe riuscito ad uscire da quella trappola. Chi restava, però, capiva di non essere stato abbandonato. Noi eravamo il segno che un intero Paese li accompagnava nella resistenza».