la Repubblica, 1 novembre 2022
Biografia di Lula
Allora aveva la barba nera, ma quando quaranta anni fa davanti ai cancelli della fabbrica di São Bernardo do Campo si sgolava al megafono in difesa dei diritti degli operai, lo sguardo era fermo, profondo e anche ironico come è oggi. Nella vita di Luiz Inácio Lula da Silva c’è molta politica, consenso e rigetto, successo ed errori e soprattutto c’è una storia personale che sembra inventata a tavolino da uno scrittore o uno sceneggiatore, invece è vera. C’è la prova di un destino imprevedibile, lo stravolgimento delle attese, la rivincita della fantasia. Se si nasce nel 1945 a Caetés, nell’interno rurale dello Stato del Pernambuco, nel Nord-Est brasiliano, in una famiglia poverissima con otto figli e si comincia a lavorare a dodici anni, la probabilità di andare avanti è remota, quella di diventare presidente della Repubblica pressoché nulla.
Oggi, mentre ritorna al Planalto, il palazzo presidenziale sulla punta della fusoliera disegnata da Lúcio Costa e Oscar Niemeyer come cuore della capitale del nuovo Brasile, Lula deve ripensare alla lunga strada percorsa per arrivare lì. Con quell’origine più che umile, gli inizi non potevano che essere duri. Scuola interrotta nell’infanzia, formazione sul lavoro, non sui banchi di un’aula, poi ripresa da più grande in un istituto tecnico. Dopo l’arrivo avventuroso a Santos, con un viaggio di tredici giorni su un camion, ancora povertà, lavoro pesante, la scoperta della fabbrica accanto ad altri operai, le prime battaglie sindacali. La dittatura militare aveva appena iniziato la sua lenta parabola di abertura – il presidente João Figueiredo era un generale, l’ultimo prima dell’elezione di un civile a capo dello Stato (1985) – e le organizzazioni sindacali non avevano certo vita facile.
Era tempo di rivendicazioni e scioperi e Lula, finito in carcere, vide aumentare la sua popolarità di rappresentante dei lavoratori metallurgici del triangolo industriale paulista (Abc). Era la Chiesa cattolica l’opposizione più autorevole ai militari, il sindacato guardava più al Vangelo che alCapitale di Carlo Marx. A San Paolo troneggiava la figura del Cardinale Paulo Evaristo Arns, teologo della liberazione. Lula, che aveva avuto un periodo di formazione professionale anche negli Stati Uniti, restò sensibile alla dottrina e all’azione della Chiesa, non ai dogmi della rivoluzione marxista.
L’esperienza delle trattative sindacali rafforza il pragmatismo di Lula. Al tavolo è duro nel confronto, ma concentrato sul risultato, sa quando occorre spingere e quando è meglio incassare e chiudere. Lula cresce così, più tenacia che teoria, più concretezza che ideologia. È una maturazione graduale, favorita anche dai primi insuccessi, quando nel Brasile democratico passa dal sindacato alla politica alla guida del Partido dos Trabalhadores e alle sfide elettorali. Sarà sconfitto tre volte prima di essere eletto presidente nell’autunno 2002. Quei tre insuccessi e l’affermazione di venti anni fa sono legati specularmente da un filo rosso. Le disfatte avvennero dopo campagne ispirate a posizioni radicali, la vittoria giunse su una piattaforma elettorale più misurata e rassicurante. Allora Lula dovette ammettere che un’offerta politica aggregante ha maggiori possibilità di successo di un’offerta troppo identitaria e divisiva. A quello schema improntò i due mandati presidenziali (2003-2006 e 2007-2010), anche con i vicini, prendendo di fatto le distanze da Chávez e Castro.
Solidarietà, coesione e sviluppo possono essere declinati insieme. Aiutato dalla congiuntura internazionale favorevole, nei due quadrienni Lula assicura al Brasile stabilità e crescita, dimostrando che la disciplina di bilancio non è di ostacolo alla spesa pubblica per le politiche sociali, ma anzi le potenzia. Poi il quadro si complica, nel mondo e soprattutto in Brasile dove l’economia rallenta, la politica è in affanno e il dramma endemico della corruzione esplode con fragore. Lula sbaglia nella scelta di chi lo sostituisce, Dilma Rousseff, eccellente tecnico priva di empatia politica; sottovaluta la diffusione devastante della corruzione anche vicino a lui, dove doveva reprimerla per prima; non coglie la pressante richiesta di rinnovamento e pulizia che sale da un Paese stanco e sfiduciato. Sconta con dignità quasi due anni di carcere ed esce riabilitato, dopo lo scrutinio delle irregolarità del processo che ha subìto. Una parte importante del Brasile aspetta ancora una risposta adeguata a quella richiesta di legalità.
Sbaglia anche, purtroppo, nella gestione del caso Cesare Battisti, affidandosi a occhi chiusi all’insulsa demagogia di alcuni suoi compagni di partito anziché al rigore degli argomenti e delle decisioni della stessa Corte suprema brasiliana, che l’Italia aveva già tredici anni fa convinto del fondamento della domanda di estradizione. È acqua passata, ora che Battisti sconta finalmente la sua pena in Italia e Lula ha pur se tardivamente riconosciuto il suo errore.
Adesso le redini di un grande Paese amico sono nelle mani di chi, con tutti i limiti, in passato ha comunque saputo dargli speranza. Spetterà al neo-presidente tener fede con i fatti al primo impegno assunto ieri notte dopo il risultato elettorale: questa non è la vittoria di un partito, è la vittoria di molti di più, che credono nella democrazia e nella coesione del Brasile, così marcato dalle sue diversità, eppure così bisognoso della sua unità.