La Stampa, 1 novembre 2022
25 aprile: le colpe della destra
Il Presidente del Senato Ignazio La Russa ha ragione: le piazze del 25 aprile piene di bandiere rosse danno fastidio. Anche a quelli come me, che pure provengono da una formazione di sinistra. Ma non perché ci sono le bandiere rosse: mi danno fastidio perché non ci sono tutte le altre. Siamo d’accordo sul fatto che la storia vada continuamente riletta e riscritta, che la “vulgata” antifascista sia ormai datata, che i conti con il passato siano ancora aperti. Ma è altrettanto vero che se in questi decenni repubblicani hanno avuto spazio coloro che provavano nostalgia per il Ventennio e coloro che, all’opposto, avevano come riferimento Mosca o di Pechino, è proprio perché c’è stato il 25 aprile e lo slancio etico-politico che subito dopo ha animato il lavoro dell’Assemblea Costituente. La grandezza della nostra Carta costituzionale risiede nella capacità di garantire tutti e di dare a tutti diritto di tribuna, persino a coloro che ne sono detrattori: perché sul piano delle idee, la forza della democrazia sta in ciò che permette, non in ciò che vieta. Nei regimi dittatoriali è vietato dissentire, criticare, manifestare opposizione; in certi momenti è stato vietato essere ebreo, o essere omosessuale, o essere un kulaki. La democrazia della nostra Repubblica è abbastanza forte da lasciare spazio a tutti, nei limiti e secondo le regole stabilite. Questo significa il 25 aprile, nel suo valore storico e simbolico. Se le piazze sono diventate rosse, la responsabilità va ricondotta sia a chi ha egemonizzato cercando di impadronirsi dell’eredità morale, sia a chi ha abdicato rinunciando ad un patrimonio identitario collettivo. Hanno colpa gli uni, hanno colpa gli altri.
Non facciamo di quella data un ennesimo campo di schermaglie. Non so se siamo in tempo per riempire le piazze di tricolori, come succedeva, peraltro, negli anni Cinquanta/Sessanta: so però che il 14 luglio è diventato simbolo identitario per i Francesi solo alla fine dell’Ottocento, un secolo dopo la presa della Bastiglia, e dunque varrebbe la pena provarci. La storia ha spesso bisogno di lasciare evaporare le contrapposizioni per poi ritrovarsi in una sintesi riconosciuta. La vittoria alle elezioni di una Destra che in passato ha avuto riferimenti storici forti e che oggi si presenta con abiure altrettanto nette, può essere l’occasione per una rilettura che ci restituisca un passato nel quale identificarci senza ingerenze ideologiche. Ci sono però condizioni dalle quali non si può prescindere: proprio perché la Destra ha vinto non deve rincorrere le polemiche antifasciste con cui la Sinistra ha scriteriatamente costruito la sua campagna elettorale, ma deve “andare oltre”. Ne va della credibilità stessa delle abiure.
La prima condizione è che per fare del 25 aprile le piazze della libertà di tutti, l’impulso deve partire da chi riveste le cariche più alte dello Stato. Dichiarare quale 25 aprile “non” si vuole è facile messaggio propagandistico per la propria base elettorale: ora serve la sollecitazione ad un 25 aprile collettivo, preparato da ogni scuola, da ogni amministrazione; serve la valorizzazione della storia contemporanea nei curricula di studio; serve il sostegno ad un patriottismo inteso come consapevolezza e lealtà verso i valori della democrazia costituzionale.
La seconda è che le divisioni sulle date della liturgia civile sono retaggi del passato da rimuovere. La contrapposizione (sottilmente adombrata nella lettera del presidente La Russa) tra 4 novembre e 25 aprile è figlia delle polemiche degli anni Settanta: è vero, i “rossi” hanno innalzato la bandiera dell’internazionalismo e rimosso il 4 novembre, e i “neri” ne hanno fatto l’esaltazione di Vittorio Veneto. Anche qui, andiamo oltre. Guardiamo a che cosa sono stati il 4 novembre, la Grande Guerra, l’Ortigara, il Piave; guardiamo all’angoscia delle tombe tutte uguali di Redipuglia, all’anonimato gelido della morte. Guardiamo alla storia nazionale, cercando di capire che cosa è stata e che cosa ci insegna.
La terza è che la “tolleranza zero” verso l’illegalità deve essere a 360 gradi. Per pure coincidenza, nei giorni scorsi ci sono stati il Rave party di Modena e il raduno di camicie nere a Predappio. D’accordo sul far sgomberare il capannone abbandonato: ma nemmeno una parola di condanna sui saluti romani e su richiami contrari alla Costituzione? Anzi, una dichiarazione del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che risolve il problema dicendo che i raduni di Predappio ci sono sempre stati? Certo, ci sono stati, e molto male hanno fatto i passati ministri a tollerarli (a cominciare da quelli espressi dalla Sinistra), perché rispettare le regole è il principio di fondo di una comunità democratica. Un intervento deciso del nuovo governo sarebbe stato il modo migliore per confermare le abiure e zittire i retropensieri. In certi momenti della storia i gesti simbolici hanno un grande valore: sia quelli che vengono compiuti, sia quelli che “non” vengono compiuti. —