Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  novembre 01 Martedì calendario

Biografia di Umberto Boccioni

Della vita di un artista – un pittore, un musicista, un poeta – che cosa si può conoscere se non l’opera? Mettiamoci davanti al capolavoro di Umberto Boccioni — La città che sale, noto anche come Il Lavoro — e ammiriamo, rapiti e travolti, quella tempesta di colori, forme, movimenti, materiali, anime che nel 1910 già contengono in sé la modernità e l’uomo del XX secolo che crea e distrugge sé stesso e la sua storia. Quell’opera, oggi esposta al MoMa di New York, ha in sé senz’altro qualcosa di sovversivo: riesce a parlare al nostro animo mettendo il movimento sulla tela e quel cavallo rosso che c’è al centro della tela è insieme moderno e antico, come l’antico e il moderno c’è nei cavalli – questa volta uno bianco e uno nero – del celebre mito di Platone in cui si mette in scena la natura inquieta dell’anima umana che è la fonte dell’opera.
Il pittore che cosa mise realmente sulla tela: la modernità o la sua inquietudine? Forse, non c’è davvero differenza. Ma per provare ad avere una risposta bisogna leggere il libro che Rachele Ferrario, storica e critica d’arte, ha dedicato alla vita e all’opera di questo geniale pittore che con i colori e il gusto della bellezza, ereditata dal sangue e dalla gentilezza della madre, ci ha mostrato il Novecento ancor prima che il Novecento venisse al mondo: Umberto Boccioni. Vita di un sovversivo (Mondadori).
La biografia di Umberto Boccioni scritta da Rachele Ferrario ha una caratteristica: cerca di avvicinare il più possibile vita e arte, assumendo il rischio che una delle due prenda fuoco. Senz’altro sembra che, ad un certo punto, prendano fuoco le pagine del libro perché il racconto della storia del cuore di Boccioni è materiale altamente infiammabile.
Basti questa considerazione che ha davvero in sé qualcosa di incredibile: Boccioni morì, come Cristo, all’età di 33 anni nelle retrovie della Grande guerra cadendo da cavallo nell’agosto del 1916, ma sulla sua figura intellettuale e morale e vitalissima graveranno per tanto tempo l’ombra e la maledizione del fascismo. Eppure, il regime di Benito Mussolini inizierà a prender forma soltanto sei anni dopo la morte del giovane pittore che con il poeta Tommaso Filippo Marinetti mise al mondo il Futurismo.
È giusto porsi la domanda «ma se non fosse morto così bello e così giovane sarebbe diventato fascista»? È davvero una domanda strana e stralunata perché per quanto i sentimenti che agitavano il cuore del figlio di Raffaele – usciere di prefettura – e Cecilia Forlani – sarta – potessero essere in sintonia con il mito della giovinezza, della violenza, del nazionalismo che son propri del fascismo, ciò che a noi resta del grande pittore son le opere che in un sol balzo vanno ben al di là sia della vita e della morte dell’artista sia dell’inizio e della fine del regime mussoliniano, per entrare a far parte semplicemente e veracemente della bellezza dell’umanità sofferente. Non si vede questa bellezza straziante nei quadri di questo «purosangue romagnolo», come lo definì Aldo Palazzeschi, nato per caso a Reggio Calabria, o di questo Picasso italiano morto troppo presto?
La biografia di Boccioni scritta da Rachele Ferrario corre come il cavallo rosso de La città che sale che anticipa il cavallino dei motori di Enzo Ferrari. Si va dall’infanzia di Morciano di Romagna e Padova all’incontro decisivo a Roma con Balla, dall’amicizia con Sironi e Severini al legame con Marinetti, dagli amori e dalle donne – come Margherita Sarfatti e Vittoria Colonna, ma la donna insostituibile del pittore fu la madre – ai viaggi in Russia e a Parigi, dalle scazzottate alle polemiche su arte e amore.
Ma dopo aver fatto una corsa a rotta di collo nei veloci trentatré anni di Umberto Boccioni ci si rende conto davvero di aver bruciato un secolo in una giovane vita e, allora, si può dire con la Ferrario che «non è il Futurismo che fa Boccioni; è Boccioni che fa il Futurismo» e lui, pur essendo figlio del suo tempo, ha un «respiro universale» che parla a tutti gli uomini di ogni epoca. Si può arrivare a dire, come di fatto fa la critica d’arte, che Marinetti deve a Boccioni più di quanto Boccioni non debba a Marinetti: gli Stati d’animo e La città che sale ma anche Rissa in galleria sarebbero stati dipinti anche senza Marinetti, ma non senza «la pittura rivoluzionaria di Cézanne» e la velocità che si portava in petto, che altro non era che la nuova forma dell’eterna inquietudine del cuore umano.
Lo si può comprendere anche mettendo da parte tanti discorsi e guardando le Forme uniche della continuità dello spazio per vedere insieme, l’umano, l’oltreumano e il disumano. Tutto in uno.

Il destino del cavallo
di Rachele Ferrario

Boccioni non sarà mai un romanziere, né Le pene dell’anima ha alcun valore letterario. Ma è la prova della carica innovativa in chiave modernista che lo anima fin da ragazzo: la rottura con il vecchiume ottocentesco iniziato tra marionette e poeti dialettali continua in questo racconto con una riflessione sul tempo e sulla simultaneità degli eventi; temi che saranno al centro della cultura moderna e del suo futurismo.

La sua genialità è visionaria. Nel «romanzo» Boccioni inserisce disegni fantastici e profetici, tra cui il cavaliere in armatura medievale e il suo staffiere, accanto alla dedica: «Al glorioso capitano Mario Nicotra, morto ascendendo la scala della gloria, pace all’animaccia sua», sigillata da un teschio con tibie.

Stile

La carica innovativa

in chiave modernista

La novità di questo componimento è nell’ultima pagina. Il cavallo anticipa la sua arte futura. Umberto l’ha disegnato mentre sta disarcionando il cavaliere, le staffe ancora in tensione, le zampe posteriori dell’animale nell’atto dello slancio, tentando di dare l’idea del movimento. Anche se il suo rapporto con la fotografia è controverso, comincia qui la fascinazione di Boccioni per i ritmi cinetici, ispirati alle cronofotografie di Étienne-Jules Marey e di Eadweard Muybridge, i precursori del cinema, che rappresentano il movimento e la velocità, ponendo le figure in una sequenza temporale.

Il racconto è datato «Catania, 6 luglio 1900». A Mario regala la copia scritta a mano. Umberto non può sapere che sedici anni più tardi sarebbero scomparsi entrambi, a dieci giorni uno dall’altro. Mario Nicotra, capitano di fanteria, sarà ucciso il 6 agosto 1916, nella sesta battaglia dell’Isonzo; dieci giorni dopo lo seguirà il soldato semplice Boccioni, caduto da cavallo.