Linkiesta, 31 ottobre 2022
Il nostro diritto di dare di stronzo a un deputato nero
Non mi faccio una ragione che, sull’internet, la gente cerchi perlopiù di dimostrarsi saputa. Di dirti che ha colto la citazione banale che hai fatto, di farti una battuta che ritiene la farà sembrare sagace, di esporti la propria opinione sul mondo o anche solo sulla notiziola del giorno.
Sull’internet come altrove, io cerco un don Raffae’. Sì, quello di De André. No, non nel senso di padrino mafioso che possa raccomandare mio fratello o prestarmi un cappotto elegante. Nel senso di quel verso prima del caffè: uno che «mi spiega che penso».
Non ne trovo mai. È quindi con gioia ma con sorpresa che negli ultimi giorni ne ho trovati ben due. Uno pure napoletano, quindi forse più adatto al ruolo di don Raffae’ di quanto lo sia il livornese. Comunque: ben due che mi spiegano che penso, una settimana di bottino ricco.
Mentre Simone Lenzi scriveva il pezzo che sarebbe uscito sabato mattina su Linkiesta, io ero a Bologna, alla presentazione del libro di Claudio Velardi, Impressioni di settembre. Mentre Simone Lenzi scriveva di Aboubakar Soumahoro (certo che anch’io – come Lenzi – ho dovuto guglare il nome, e certo che neanch’io ho il complesso di sbagliarglielo: al massimo facciamo pari con cinquant’anni in cui mi hanno storpiato Guia), Velardi faceva Carmelo Bene.
C’era qualcosa di professionalmente teatrale nel modo in cui, per dire che il Pd si atteggia a partito delle nuove istanze ma poi sfodera delle candidature che più retrograde non potrebbero essere, Velardi ripeteva semplicemente un nome, cambiando un po’ tono – esasperato, divertito, sconcertato, rassegnato – ogni volta: Carlo Cottarelli, Carlo Cottarelli, Carlo Cottarelli. C’erano tutti i «machedavéro» del mondo, in come ne pronunciava il nome.
Candidate un rider, non Cottarelli, se volete essere il partito che rappresenta i nuovi lavoratori, diceva Velardi; e io pensavo: Aboubakar Soumahoro (non prendiamoci in giro, non sono in grado di pensarlo senza refusi: pensavo «quello che si è presentato in parlamento con gli stivali di gomma per ricordarci che era il quarto stato e le più frivole di noi hanno pensato alle finte tute da operaio nella sfilata di Balenciaga, e prima ancora quelle di Gucci che avevano pure le finte macchie»).
Mentre Lenzi scriveva che il Novecento era finito, Velardi diceva che la sinistra aveva vinto: che tutte le battaglie che aveva portato avanti negli ultimi centocinquant’anni erano vinte. E quindi ora cosa fai, quando i bambini non vanno più in miniera, le donne hanno la maternità pagata, i problemi gravi sono più o meno risolti? Ti resta tantissimo tempo libero, come sintetizzava Lenzi: «Una sinistra il cui immaginario di riferimento e la cui esperienza di lotta per la sopravvivenza nella modernità coincide con quella di un professore di liceo […] le lunghe ferie pagate, la tredicesima, tanto tempo libero per ribadire sui social che si sta dalla parte del giusto». E quindi ti butti sui diritti civili. Scuoteva la testa Velardi, rispondendo senza saperlo a Lenzi, demolendo consapevolmente tutte le campagne suscettibili: ma la risposta non può essere questa, e infatti non funziona.
Sabato mattina, leggevo l’elogio di Soumahoro scritto da Lenzi, e ripercorrevo le due pessime impressioni che mi aveva fatto il deputato a inizio legislatura. La prima, nell’imbarazzante filmato mandato in onda da Propaganda. Quando, prima di farsi fotografare con gli stivali di gomma, aveva parlato al corteo che lo aveva accompagnato a Montecitorio. Un discorso scandito dall’anafora «Noi non siamo poveri», che funzionava solo intendendo che lo siamo formalmente ma siamo ricchi dentro, e quindi non può funzionare se l’oratore è qualcuno che si accinge a cominciare un lavoro per cui guadagnerà dieci volte un professore di liceo. Sì, certo, è lì in rappresentanza degli ultimi (se non sono ultimi i braccianti dei cui diritti ci occupiamo meno che di quelli dei neri di Minneapolis, non so proprio chi), ma non può più atteggiarsi a ultimo.
La seconda pessima impressione è stata quando la Meloni ha fatto la cafonata di dargli del tu. Soumahoro era inquadrato, e non se n’è accorto (fanno poco caso alle declinazioni dei verbi coloro per cui l’italiano è la prima lingua, sarebbe folle pretenderlo da chi ha imparato l’italiano da adulto). Qualcun altro l’ha notato e ha iniziato a rimproverare urlando la presidente del Consiglio: gli aveva dato del tu, era una cafona (niente dice di te che sei attento al bon ton come metterti a urlare «cafona» in parlamento).
L’indignazione per il gravissimo «tu» ingrana, Soumahoro capisce che funziona e subito se ne appropria. Twitta: «La Pres. @GiorgiaMeloni si definisce “scolara della Storia”, eppure dovrebbe ricordarsi che con lo schiavismo e il colonialismo, i “neri” non avevano diritto al “Lei”. Forse all’#underdog viene naturale dare del tu a un under-underdog. No, Signora Presidente, mi dia del Lei». Bravissimo – a cogliere pretesti minimi e a sfruttare ogni inciampo dell’avversaria per piazzarsi come miglior vittima protagonista e a parlare a un pubblico che non gli chiederà di che schiavismo parli – ma non è uno sport che io ami moltissimo.
Però, sabato mattina, i miei due don Raffae’ convergono. Forse perché ha letto Lenzi, Velardi twitta: «Consiglio non richiesto al @pdnetwork. La persona più sveglia che circola dalle vostre parti è @aboubakar_soum. Viene dal mondo reale, ha energie da vendere e sa comunicare. Candidate lui, altro che i vostri sepolcri imbiancati che discutono del nulla». Claudio Caprara gli risponde «Evidentemente non l’hai mai incontrato», e a me sembra una buona notizia. Non ricordo di chi fosse la battuta «Il razzismo sarà finito quando si potrà dire che un nero è uno stronzo», ma mi pare che da queste parti sia già un progresso questo.
Che ci sia un nero che non è un fattorino di Glovo o uno sportivo professionista multimilionario (le uniche due categorie finora presenti in un posto in cui la classe media è inderogabilmente bianca), e che questo nero non sia un santino ma un uomo di potere di cui possiamo discutere, com’è normale accada d’un deputato.
Ci saranno aggiustamenti, esagerazioni, bisogno di ricordarci che lui è nero-quindi-underdog anche quando non lo è più da un pezzo, vittimismi, vezzi, elogi, critiche: roba normale. Forse il paese normale che auspicava quel tizio anni fa passa anche da qui: dal fatto che di un ex bracciante nero uno possa dire secondo me il partito ci deve puntare, e l’altro rispondere secondo me è uno stronzo. Esattamente come faremmo di un economista bianco.