Corriere della Sera, 31 ottobre 2022
Il caso Fidia al cuore di Atene
«Saggissimi contadini!» fa dire Aristofane al dio Ermes «fate bene attenzione alle mie parole se volete sapere com’è che la pace era andata in fumo. All’inizio ci furono le malefatte di Fidia. Poi Pericle, temendo di trovarsi coinvolto nella cattiva sorte di Fidia – lui conosceva bene la vostra indole e sapeva che voi all’occorrenza mostrate i denti —, ebbene Pericle, per non trovarsi nei guai, infiammò la città col decreto su Megara; soffiò allora un tale vento di guerra da far lacrimare tutti i Greci». Queste parole, che figurano nel bel mezzo della commedia intitolata Pace (versi 605-610) risuonarono nel teatro di Dioniso, alle Grandi Dionisie del marzo-aprile 421 avanti Cristo; e subito dopo fu siglata la pace di Nicia, che sembrava dover porre fine al lungo, già decennale, conflitto tra Sparta e Atene.
La tesi qui sostenuta sembra assurda: che cioè Pericle (scomparso nel 429 durante la peste) aveva provocato l’immane conflitto – che rischiava di durare più della guerra di Troia – per evitare di essere invischiato nel processo contro il grande Fidia. Fidia era il suo «ministro dei lavori pubblici» nonché progettista e realizzatore, tra l’altro, del Partenone. Aristofane le spara grosse. Anni prima aveva indicato, sempre colpevolizzando Pericle, tutt’altra causa della grande guerra: il ratto di alcune prostitute protette da Aspasia. In realtà la vicenda di Fidia era molto seria e creò a Pericle gravi difficoltà.
Nella Vita di Pericle, Plutarco inquadra opportunamente l’attacco frontale, e almeno in parte pretestuoso, contro Fidia nell’offensiva antipericlea di quegli stessi anni, di poco precedenti lo scoppio della crisi che portò alla guerra. Si trattava di denunce e processi contro Aspasia e contro Anassagora, rispettivamente consorte e interlocutore privilegiato di Pericle (capitoli 31 e 32). Pericle salvò Aspasia, Anassagora si salvò fuggendo da Atene (città non del tutto propizia per i filosofi), Fidia morì in carcere secondo Plutarco. Secondo altre tradizioni, meno attendibili, sarebbe fuggito e poi colpito da analoghe disavventure nel Peloponneso.
«Non si è traditi che dagli amici», dice un adagio. E infatti la denuncia, risultata micidiale, contro Fidia venne da un suo collaboratore, Menone. Per «collaboratori» devono intendersi altri artisti formatisi alla scuola, cioè nella bottega, di Fidia e in grado di gareggiare con la sua bravura di grandissimo artigiano. Su questo aspetto molto importante, relativo al concreto lavoro di squadra che si attuava intorno ad una figura dominante per esperienza, capacità, età (fenomeno comune anche al mondo dell’oratoria e del teatro) vanno viste le molte pagine dell’appendice al volume Fidia, l’uomo, di Ernst Buschor (1886-1961), curato da Stefano Esengrini, appena pubblicato in traduzione italiana dalle Christian Marinotti Edizioni di Milano (il volume è ampiamente illustrato). L’autore è stato un autorevole archeologo e la sua analisi è essenzialmente storico-artistica e complementare dei numerosi lavori più propriamente biografici sul grande scultore e architetto. Quest’uomo fu, a tutti gli effetti, parte essenziale della politica interna di Pericle: politica di cui il settore, ampio e costantemente alimentato, dei lavori pubblici costituiva un embrione molto significativo di «Stato sociale». Una sorta di New Deal ante litteram.
E vi era anche un nesso personale: il grande artigiano-architetto-scultore poteva usare la sua arte per contribuire a glorificare il grande politico e grande regista di quelle imprese. Infatti un addebito, tra gli altri, contro Fidia era stato che avesse dato il volto di Pericle a una delle figure del fregio del Partenone. E parve arroganza del potere farsi eternare in un tempio di quella portata e di quel significato, che comprendeva la statua, coperta d’oro e di avorio, di Atena, posta davanti alla cella contenente il tesoro della Lega. Fidia fu anche accusato di aver voluto raffigurare sé stesso. Molto più importante era ovviamente l’omaggio al grande statista e leader indiscusso della città nonché dell’impero. È un genere di omaggio che è ritornato nel tempo. Da ultimo la ricorrenza anniversaria ha riportato all’attenzione la poliedrica e creativa figura di Antonio Canova, artefice – Napoleone era in auge – di una inevitabilmente eroicomica statua di Napoleone nelle fattezze e nello scarsissimo abbigliamento del dio Marte. Alla maniera di Vincenzo Monti, Canova seguì l’andirivieni politico del suo tempo e seppe perciò provvedere a ritoccare la propria immagine dando mano al recupero delle innumerevoli opere d’arte trafugate da Bonaparte e trasferite in Francia: gesto riparatore rispetto alla precedente devozione verso l’imperatore.
Un recente volume di Luca Nannipieri (Candore immortale, Rizzoli) fornisce un elenco nutritissimo delle opere trafugate e restituite (pp. 207-225). Il saccheggio dei tesori dell’Europa conquistata, ma soprattutto dell’Italia, non si limitò alle sculture e ai quadri, ma si estese anche al patrimonio di manoscritti, in particolare di quelli posseduti dalla Biblioteca Apostolica Vaticana.
Giova ricordare a questo proposito che una lista di manoscritti da portar via fu, durante la prima campagna d’Italia di Bonaparte, redatta dall’allora filofrancese Barthold Georg Niebuhr. La storia del movimentato destino di questi tesori e in particolare dei manoscritti, approdata ad un certo momento nell’ambito dei lavori del Congresso di Vienna, è stata varie volte raccontata. Ivi compresi i trucchi miranti ad evitare le restituzioni.
Lunga è la storia delle razzie di opere d’arte da parte di potenti, non sempre fortunati, conquistatori: da Serse che ruba le statue dei tirannicidi dalla agorà di Atene e se le porta in Persia (pare le riportasse indietro Alessandro Magno) alla vorace battuta di caccia di un dilettante amatore d’arte quale il maresciallo Hermann Goering finito, troppo tardi, a Norimberga.