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 2022  ottobre 31 Lunedì calendario

Il dietro le quinte de La Scala

La luce al mattino, ore 8, la accende Giancarlo Modica, 51 anni, calciatore mancato («Giocavo bomber in Eccellenza, 1.800.000 lire a stagione nel Lainate e nel Paullo»), da 25 alla Scala, responsabile del reparto elettricisti. «Ho iniziato facendo il giro-sala, la gavetta dei neofiti: prima che cominci lo spettacolo vanno ispezionate tutte le lampadine, una per una; obbligatorio cambiare subito quelle bruciate». La luce la sera, intorno a mezzanotte, la spegne uno degli uomini di Giancarlo: 52 persone divise in squadre, il teatro è grande, solo il lampadario centrale in cristallo di Boemia ha 382 luci («E non 365 come i giorni dell’anno: è una falsa leggenda!»), sostituirle con il Led per ragioni di economia è stato un lavoraccio («È tutta un’altra cosa, la prima volta che ho visto la Scala illuminata a Led ho pensato: ommamma...»), poi ci sono i palchi (altre 200 lampadine), i globi (500 lampade), le parti comuni. «Abbiamo provato con quelle del supermercato ma non assicurano la durata». Quante lampadine cambia in una stagione, Mister Edison? «Ci arrivano forniture da 500 pezzi, le facciamo fuori in sei mesi».
I virtuosismi di Ariel
Benvenuti al Teatro alla Scala, per i milanesi che la frequentano dal 3 agosto 1778 semplicemente la Scala, a Milano un’istituzione, nel mondo un’eccellenza italiana. Sul palco del teatro più celebre dell’orbe terracqueo oggi si prova The Tempest, opera d’ispirazione shakespeariana, direttore Thomas Adès, regia di Robert Lepage, in scena per la prima volta da sabato esaltata dalle capacità vocali del soprano di coloratura americano Audrey Luna (è lo spirito dell’aria Ariel), capace di virtuosismi e detentrice del record della nota più alta mai emessa da ugola di donna («L’angelo sterminatore» al Metropolitan Opera di New York).
Le evoluzioni di Ariel sul lampadario nel primo atto, così complicate da richiedere l’apparizione di una comparsa-acrobata, chiamano in causa Gaetano Graus, 62 anni di cui 42 di fiero servizio alla Scala, il vice-capo macchinista che in questa giornata speciale in cui al Corriere è permesso ficcare il naso dietro le quinte è responsabile, insieme a Stefano Fumagalli, dei movimenti scenici. Napoletano, accogliente e simpatico, Gaetano si siede a chiacchierare al centro della Piccola Scala, il teatro nato nel 1955 accanto a quello principale (si accedeva da Via Filodrammatici), attivo fino all’ottobre 1983. Adesso è un’ampia sala destinata al riscaldamento dei ballerini, il palcoscenico dietro il palcoscenico su cui le veloci mani delle sarte e delle addette al trucco e parrucco rimediano a orli improvvisamente sdruciti, piume eccessivamente svolazzanti, bottoni che saltano, baffi posticci che prudono.
Cornetti rossi sul palco
Gaetano è una miniera di pepite preziose («Quando uno di noi prende in carico uno spettacolo, lo fa suo: la cosa più difficile è un cambio scene veloce, a vista, rispettando la partitura musicale. Ci si allena, come gli atleti»), ha conosciuto molti mostri sacri («Pier Luigi Pizzi ha debuttato proprio qui, dove stiamo parlando, il grande Eduardo alloggiava all’Hotel Marino ma era sempre in teatro, uno stacanovista; Nureyev, Guillem, Savignano: che periodo straordinario; mi sono avvicinato timoroso a Renata Tebaldi e ho scoperto una persona dolcissima»), nel suo reparto lavorano 100 persone addette alla movimentazione dei ponti («L’opera più difficile? Il Don Giovanni di Mozart con la regia di Robert Carsen, che prevede il movimento contemporaneo di elementi scenici sospesi, più un pavimento mobile»). Ad esorcizzare qualsiasi problema, oltre alla professionalità delle maestranze della Scala, provvedono i cornetti rossi di Graus: «Sono a Milano da due terzi della mia vita però mi raccomando ancora a San Gennaro!».
La Boheme con gli animali, le centinaia di comparse in scena volute da Franco Zeffirelli, l’Aida di Luca Ronconi («Precursore assoluto della modernità»): niente può spaventare Gaetano, l’artigiano che con modi antichi ha attraversato la rivoluzione tecnologica («Prima era tutto manuale, olio di gomito: durante la Tosca entravamo in palcoscenico vestiti da chierichetti per montare l’altare; oggi l’altare sale da solo schiacciando un pulsante») e che, come Giancarlo l’elettricista, attraversando Piazza della Scala si emoziona ancora tutti i giorni. «Papà lavorava con Strehler, che mi chiamava modichino – si commuove Modica nel suo ufficio, davanti a un caffè —. Dopo il giro-sala sono passato per dieci anni a fare il follow spot, cioé l’operatore che dal lampadario segue con la luce gli artisti sul palco: quanti schiaffoni mi sono preso, ma così ho imparato il mestiere. E se penso al Macbeth di Muti, la mia prima “prima” del 7 dicembre da lassù, in diretta e in mondovisione, ho ancora i brividi». Sì, perché dentro il lampadario centrale, durante gli spettacoli, abitano tre specialisti senza vertigini, i «cecchini» nello slang teatrale: «Hanno in mano un proiettore con cui seguono il ballerino o il cantante. E guai se la luce è sbavata, troppo netta o fuori sincrono con gli spostamenti dell’artista: si deve amalgamare con i colori della scena. Roberto Bolle è un metronomo, così preciso da essere facile da illuminare: vola, come al rallentatore. Invece Maximiliano Guerra mi faceva impazzire: cominciava a saltare e non sapevi quando finiva, 50-60 salti di fila... Un terno al lotto».
I baffi (veri) di Figaro
Il reparto di Tiziana Libardo, alla Scala dall’85, ha qualcosa di affascinante e inquietante insieme. Il lavoro certosino delle 8 sarte del capello che coordina (più le addette alla manutenzione e le collaboratrici che, a rotazione, seguono gli spettacoli la sera) è catalogato a pennarello. Dall’alto in basso: baffi nuovi, basette e pizzetti, crespo biondo, crespo scuro, tessitura chiara/scura, liscio castano, e via dicendo. Siamo al secondo piano del lato della Scala che dà sul Teatro Filodrammatici, vicino di casa. Tiziana è la responsabile dei parrucchieri, dei truccatori e del «parruccaio» (barbe e parrucche), un’arte antica che insegna anche all’Accademia della Scala: «Per le parrucche usiamo sia capelli veri, che ci arrivano da un fornitore spagnolo, che sintetici, provenienti da Roma – racconta —. Le barbe sono tutte di peli veri». Ne troneggiano una decina, appoggiate su teste di polistirolo, già pronte per Boris Godunov, il dramma musicale di Musorgskij diretto da Riccardo Chailly che a Sant’Ambrogio aprirà con la solita solennità la stagione scaligera. La sfida più grande di The Tempest sono le chiome delle madame del coro: 30 parrucche personalizzate in base alla forma del viso delle cantanti. Ciascuna verrà ritirata ogni sera, lavata a fine spettacolo e poi inscatolata per tornare buona, modificata oppure stravolta, in un’altra opera. Se nulla si crea e nulla si distrugge, non c’è un pelo di questo stanzone (dove tre sarte assorte stanno ricamando il crine all’uncinetto) che va perduto. Servono 8-9 giorni per una parrucca, 2-3 per una barba folta, un paio d’ore per un paio di baffi, che Figaro – magari – possa arricciare meditando vendetta.
Tiziana, che è di Lodi, si è fatta le ossa nei teatrini di Milano, è stata assunta alla Scala in laboratorio, l’antro delle apprendiste stregone che imparano il mestiere senza tanti giri di parole, facendolo. Dice che non c’è una parrucca che l’ha tenuta sveglia la notte, che ognuna le sposta l’asticella un po’ più in alto perché questa è la Scala, e dalla Scala, da ogni suo reparto, lo spettatore non si aspetta un grammo in meno dell’eccellenza. La Tosca con la costumista di Stanley Kubrick (Milena Canonero), la chioma della protagonista del Tannhauser, l’elaborata acconciatura della regina della notte nel Flauto Magico: «La nostra è una rincorsa perenne e impossibile al perfezionismo».
Le paillette di Violetta
Ne sa qualcosa Patrizia D’Anzuoni, origini salernitane e natali meneghini, responsabile sartoria e vestizioni, 35 anni di Scala, la mamma della tutina attillata, una seconda pelle, con cui Ariel aprirà The Tempest. 45 persone ruotano sotto l’abile regia di Patrizia, Accademia di Belle Arti a Brera con l’idea di diventare scenografa, un destino che la forza del pensiero creativo ha reso inarrestabile: «Avevo vent’anni. Passavo davanti alla Scala e pensavo: io lavorerò qui dentro». Oggi è uno degli anelli della catena che rende possibili i miracoli.
Pizzi, Frigerio e Georgiadis sono i suoi maestri, ha conosciuto Nureyev coreografo dello Schiaccianoci («Lo vedevo entrare con lo sciarpone al collo, gentile e riservato»), ha vestito Carla Fracci («Veniva spesso in laboratorio e suo marito, Beppe Menegatti, portava noi sartine giovani alla Ricordi a comprare le musicassette: conservo ancora quella del Quartetto Cetra»), ha amato lo stile di Luisa Spinatelli («Per Carla disegnava con raffinata leggerezza»), vanta l’onore di aver vestito Luciano Pavarotti («Imponente e simpaticissimo, anche affettuoso: ci piaceva coccolarlo, quasi viziarlo con i ritocchi agli abiti prima ancora che ce li chiedesse»). Il regno di Patrizia sono i guardaroba a vista da cui penzolano i costumi di scena (sono già pronti quelli del Boris, che supereranno i 350 pezzi dell’Aida), lei li accarezza come figli, il lavaggio ad acqua è interno, all’Ansaldo ci sono le macchine della pulizia a secco, insieme ad altri laboratori della Scala (la falegnameria, ad esempio). Difficile scegliere un abito del cuore, tra tanti, però Patrizia ricorda come fosse ieri l’utile incubo a cui la costrinse Gabriella Pascucci, costumista della Traviata della Cavani: «Violetta indossava un vestito ottocentesco di paillettes in degradé: quattro giorni di lavoro, Pascucci lo guarda senza dire niente. L’indomani lo ritrovo sotto l’acqua, senza paillettes: non erano allineate a dovere, le aveva lavate via tutte. Lo rifeci daccapo, a testa bassa. Una lezione straordinaria».
Poi ci sarebbe da raccontare della grattugia (proprio quella per il formaggio) con cui Patrizia invecchia i vestiti, ma la Scala è un mondo troppo grande per entrare in un solo pezzo. «Il senso di appartenenza ci rende una famiglia»: a nome di tutti – Giancarlo, Gaetano, Tiziana e centinaia di super professionisti della grande bellezza —, Patrizia sintetizza così. Ha gli occhi umidi, e non è un trucco di scena.