Corriere della Sera, 31 ottobre 2022
Un giorno in trincea
In trincea si dorme a turni, perché di notte la guerra fa anche più spavento. Sei di guardia oppure esci all’attacco di quelli che, forse, questa volta non ti vedranno. Difficile immaginarli rimestare Nescafé. I nemici hanno qualcosa di diverso, qualche stupidità che li avvicina alle bestie, qualche malvagità che li rende insopportabili. Coltivi l’odio per poterli uccidere. Eliminare loro prima che loro elimino te. È parte essenziale della guerra: odio per chi cerca di ammazzarti da lontano, vigliaccamente, con un macchinario potente e rumoroso. Lo stesso che usi tu.
Un carrista di 26 anni spiega che i coscritti russi «sono già arrivati sul fronte» e con lo sguardo dritto dice che «continuano a mandarceli contro a gruppi di 20 e noi ogni giorno ne facciamo fuori 18 e il giorno dopo ne arrivano altri 20 e poi ancora e ancora e ancora». Si chiama Ivan. È un ragazzo, con gli occhiali, i capelli lunghi come piacciono alla fidanzata. Ha l’aspetto del volontario della parrocchia.
È che in trincea i sentimenti si fanno estremi. I commilitoni appena conosciuti diventano fratelli, si diventa tutti uniti come le foglie degli alberi attorno. Ivan è pronto a morire per difenderli e non è un modo di dire. Ogni volta che sale sul carro armato espone il corpo a bombe capaci di carbonizzarlo in un attimo anche dentro la corazza d’acciaio del tank. Degli occhiali da universitario rimarrebbe, forse, qualche pallina di plastica. Ivan da dentro il carro carica, punta e spara: i nemici meritano la peggiore delle fini. Deve essere sicuro di fare la cosa giusta. Altrimenti sarebbero quei 20 ad uccidere lui.
«Ormai lo sappiamo. Anche se hanno già un drone in volo, ci vogliono cinque colpi perché i russi riescano a capire da dove stiamo sparando. Così cinque colpi e non uno di più. Via».
In trincea bisogna riuscire a dormirci anche di giorno e il sacco a pelo sotto terra è il luogo più sicuro dove stare. Si scava almeno due metri e mezzo, poi si copre in modo che nulla spunti da terra. È meglio se il soffitto è fatto con travi di cemento armato, altrimenti bisogna farsi bastare i tronchi. A volte si abbattono alberi, altre si raccolgono pali della luce o travi da case bombardate. Non c’è porta in una trincea sotterranea, ma coperte a trattenere il caldo di una piccola stufetta a legna che scarica tra i cespugli.
Per costruire quella stanza sotterranea si ricicla l’enorme spreco della guerra. Le scatole che trasportano le munizioni diventano buone per isolare le pareti dall’umidità. Una sopra l’altra fanno da perlinato con tanto di decorazione: calibro, marca, numero di serie. I bossoli delle cariche esplosive che spingono la bomba nelle canne dei carri armati vanno benissimo a rinforzare i gradini. Il risultato pare l’incrocio tra la casa sull’albero di bambini disordinati, una miniera e un campeggio da rave party. Non c’è tempo di rassettare. La trincea si spera sempre provvisoria: «Presto vinceremo». Altrimenti bisognerà indietreggiare e questo rifugio rimarrà a far meravigliare i bambini.
La fortuna serve anche perché ci sia sempre qualcuno più disponibile di altri a cucinare. Così una pentola è sempre calda sui fornelli. Pomodoro, scatolette di carne, barbabietole, patate, cipolle: il rancio è qualcosa di più di un modo per riempire lo stomaco, è un rito che ricorda casa, dà un senso di continuità alla vita come dovrebbe essere e non com’è ora. A volte basta del pepe a scatenare ricordi che tengono a galla.
In trincea si sta come in famiglia, senza vergogna, tra generazioni diverse. Spesso il comandante ha meno anni di alcuni dei sottoposti e le cose funzionano se tutti capiscono di non saper leggere, capire e decidere bene come lui. I vecchi però risolvono sempre molti problemi. Ci sanno fare con pala, chiodi e martello. Sono loro a costruire la trincea, i giovani, come in famiglia, escono più spesso e rischiano anche di più.
Tutti, tutti i gruppi di combattimento che si rifugiano in trincea hanno un cane. Ci sono sensori e satelliti, ma è ancora il cane a dare il conforto delle greggi contro i lupi che le vogliono divorare. Possono essere cani grandi o piccoli. Di giorno ciondolano, evitano cingoli e ricevono pacche e avanzi di cibo. Di notte si accucciano vicino alla sentinella e raddoppiano il numero di orecchie.
Le caserme è più sano evitarle, con l’aviazione nei cieli non si possono costruire campi tendati, ciascuna trincea, come una squadra di boyscout, deve pensare da sé a come dormire, mangiare e proteggersi. Non tutto può essere in trincea. Non c’è da lavare e lavarsi, ad esempio.
Al volante di auto civili, le più vecchie e brutte possibile (le loro oppure quelle trovate abbandonate o requisite), si lascia la camera sotterranea e si va nelle retrovie. Se si è fortunati si trova una casa col pozzo, la stufa e il bagno dove lavarsi.
I villaggi alle spalle delle trincee diventano così caserme diffuse dove sono le radio o i social media sul telefonino (WhatsApp, Viber o Telegram) a tenere il collegamento tra le unità. Poi ogni mese, ogni due o tre mesi, ecco la vera licenza. L’Ucraina ha il vantaggio, rispetto alla immensa Russia, di poter mandare a casa i propri soldati dopo un tempo di utilizzo in trincea relativamente breve. Può farlo perché l’intero Paese non è poi così lontano dalla guerra. Dalla zuppa in trincea alla pizza con la famiglia si impiegano al massimo 8 o 10 ore. La vita normale è così vicina da non poter evitare di combattere per difenderla. Così vicina che è una follia.