la Repubblica, 31 ottobre 2022
Com’è nato E.T. Intervista alla figlia di Carlo Rambaldi, Daniela
Visionario, pittore, artista, artigiano del cinema. Carlo Rambaldi è stato questo, e molto altro. Pioniere assoluto degli effetti speciali e della meccatronica, con il suo sguardo ha aperto orizzonti sconosciuti. A lui, e alle sue intuizioni, premiate con tre Oscar, si devono – tra le tante creature – il mostro del primo Alien di Ridley Scott, ilKing Kong del 1976 eE.T. – l’extraterrestre, l’alieno umano capace di sconfinare il tempo e l’immaginario affascinando intere generazioni. Nel quarantennale del capolavoro di Steven Spielberg,E.T. La mostra 1982 – 2022 (dal 6 novembre al 31 gennaio) alla Cineteca Milano Mic Museo interattivo del cinema è uno dei molti omaggi al marziano dagli occhi azzurri e al suo creatore. Un percorso storico e interattivo, quaranta reperti tornati a splendere grazie al restauro di Leonardo Cruciano e all’équipe di Baburka: dipinti, gadget d’epoca, vinili, videogame, schizzi originali dello stesso Rambaldi ripristinati da Cineteca con l’Accademia di Brera, un documentario di venti minuti sul restauro diE.T.realizzato dal figlio Victor Rambaldi.
Tanti gli eventi collaterali come la proiezione del film, il 5 sera, che inaugurerà la 15esima edizione del Piccolo grande cinema (il 24 uscirà una nuova edizione da collezione in Blu-ray e 4K con Universal Pictures Home Entertainment).
«La mostra», dice Matteo Pavesi, direttore di Cineteca di Milano, «ci racconta la bellezza della fragilità nel cinema, E.T. rappresenta ancora un prototipo perfetto di narrazione, un grande film sulla pace». Un evento imponente in collaborazione con la Fondazione culturale Carlo Rambaldi, di cui è vicepresidente la figlia Daniela Rambaldi che ricorda il padre e la sua creatura.
Quanta emozione c’è nel rivedere tutto rimesso in vita?
«Siamo felici, i materiali si stavano consumando, qui è stato fatto un restauro di tipo conservativo.
Sveliamo finalmente l’anima di E.T., parliamo dei trucchi per animarlo, cosa c’era sotto la pelle, i tiranti delle palpebre, i disegni tecnici, di espressione, esecutivi, quelli per la realizzazione della meccatronica. Solo come documenti cartacei che riguardano E.T. ne avevamo mille, e poi i prototipi e una nuova replica ricavata dai calchi originali. E.T. era quasi sgretolato, ora lo spettatore può ammirarne il percorso, capire che lui stesso è stato un attore pieno di emozioni.
Per me è un tuffo nel passato e nella magia, con un pizzico diemozione e orgoglio in più nel vedere la bravura e l’ingegno di mio padre. Sveliamo definitivamente il segreto di Carlo Rambaldi».
Che rapporto avevate?
«Di simbiosi assoluta. Ricordo bene non tanto il periodo italiano quando collaborò con Dario Argento, ma quello americano. Al pomeriggio, uscita da scuola, mia mamma mi portava nel suo laboratorio. Papà viveva letteralmente in quel luogo, sembrava non prendersi mai una pausa. Creava continuamente, anzi, quando usciva portava sempre con sé il taccuino, quasi fosse un ingranaggio. Il suo tavolo di lavoro era tutto bruciacchiato, perché quando iniziava a disegnare accendeva la sigaretta, la poggiava, quella si consumava... e dopo se ne accendeva un’altra».
Per E.T. come andò?
«Una sera, molto tardi, Spielberg lo chiamò al telefono e gli disse che aveva “a big problem” col team americano. Si conoscevano, avevano già collaborato perIncontri ravvicinati del terzo tipo,
dunque si fece mandare la sceneggiatura. Papà chiese dodici mesi per realizzare il tutto, dovette invece realizzarlo in sei mesi consegnandolo addirittura tre giorni prima. Lavorò incessantemente giorno e notte».
Lei fu una delle prime persone a vederne la nascita.
«Quando realizzò la prima scultura in creta, di circa trenta centimetri, chiamò me e i miei fratelli chiedendoci un parere. Io avevo 11 anni. Sulle prime non mi piaceva, quando però l’ha fatto girare su un cavalletto mi ha fatto ridere il suo fondoschiena, ricordava un po’ Paperino. ‘Brutto, ma simpatico’, pensai, ma non faceva affatto paura. Quella è stata la chiave del successo».
Dove trovò l’ispirazione?
«Per gli occhi la prese dal nostro gatto himalayano, per il collo allungato e la silhouette del corpo da un suo dipinto degli anni 50,Donne del Delta, riprendendo alcune figure femminili ferraresi.
Ha messo tuttoinsieme, ovviamente seguendo i tanti input di Spielberg. C’è molto di lui».
È mai andatasul set?
«Una volta, ma solo per accompagnare papà. Il set era blindato, nessuno poteva entrare se non gli addetti e il cast. E.T., alla fine di ogni ripresa, veniva chiuso in una cassa con un lucchetto, riportato nel laboratorio di mio padre, che ormai ne era diventato il custode. Tornava a “girare” il giorno successivo.
Spielberg voleva mantenere ossessivamente il segreto, senzasvelare nulla».