la Repubblica, 31 ottobre 2022
Così la sinistra ha lasciato alla destra valori, parole d’ordine e ceti di riferimento: il nuovo saggio di Luca Ricolfi
Nel mezzo del dibattito sulla fiducia al governo, il primo guidato da una esponente della destra esplicita, l’aula del Senato è stata improvvisamente investita dalla polemica sul “merito” nella scuola. Richiamato nel nuovo nome dato al ministero dell’Istruzione, il termine – o il disegno a esso sotteso – è stato contestato dal Pd. Su questo si è inserito il senatore Renzi che ha ironizzato a proposito di una sinistra incapace di rivendicare il merito scolastico come una tipica conquista dei progressisti.
L’episodio ha un risvolto simbolico tutt’altro che trascurabile. Si collega a un passato lontano, quando i “valori essenziali della cultura”, contrapposti a un’istruzione meramente tecnica e pratica, erano parte integrante della visione sociale della sinistra: un modo per favorirela crescita delle classi popolari nel solco dell’insegnamento di Antonio Gramsci. Il merito era uno degli strumenti dell’emancipazione, in tutto e per tutto coerente con l’azione politica del Pci di Togliatti. Il fatto che la scuola dovesse essere meritocratica, perché in tal modo i poveri avevano la possibilità di colmare la distanza tra le classi, non era materia di dibattito, almeno fino all’epilogo degli anni Cinquanta.
L’esempio è messo a fuoco in maniera efficace da Luca Ricolfi nel suo ultimo saggio: La mutazione. Come le idee di sinistra sono emigrate a destra,edito da Rizzoli. E ovviamente colpisce il rivolgimento dei termini. Un tempo erano la cultura e il profitto scolastico la leva per abbattere le diseguaglianze sociali; oggi la sinistra sembra sostenere il contrario: non si può parlare di “merito” se prima non si riducono o si annullano le diseguaglianze. Ma è proprio in questo falso egualitarismo, persino un po’ ipocrita, che risiede una delle cause della crisi del mondo progressista. Una fra le tante, s’intende. E colpisce che il tema del merito sia stato fatto proprio, magari solo in modo strumentale, da una destra di governo issatasi fino a Palazzo Chigi sul vuoto e l’istinto autodistruttivo della sinistra.
Le pagine di Ricolfi, sotto questo profilo, sono contundenti, a tratti persino spietate. Elencano e fotografano le debolezze di una sinistra che ha perso via via le sue radici antiche, quelle che le assicuravano una presenza costante nella società e il ruolo che tutti conoscono.
Ci si riferisce alla sinistra attuale e s’intende ovviamente il Pd, ma la “mutazione” di cui si narra riguarda, come è logico, in primo luogo il Partito Comunista e le sue trasformazioni negli anni, ben prima della caduta del muro di Berlino. Si potrà essere più o meno d’accordo con l’analisi di Ricolfi, ma essa si fonda su dati precisi, come ci si attende da un sociologo. Sarebbe un grave errore chiudere gli occhi o, peggio, qualificare questo scritto come un libro “di destra”. Al contrario, Ricolfi parte da un punto di vista liberale e su quello misura l’evoluzione del quadro italiano. Nel quale di liberalismo classico c’è poco: esiste uno spirito “liberal”, basato sulla fiducia nelle virtù salvifiche del mercato e sulla rivendicazione dei nuovi diritti (quelli Lgbt, quelli dell’immigrazione poco o nulla controllata, il femminismo esasperato) ed esistono i ceti travolti, impoveriti o semplicemente impauriti dai processi di globalizzazione e de-industrializzazione in atto. Processi che sono inevitabili, ma non sono lineari e soprattutto non sono esenti da ricadute drammatiche in termini economici e sociali. A questi ceti la sinistra ha ormai poco o nulla da dire, mentre la destra “sovranista” ha saputo conquistarne in larga misura il favore.
Il libro esce all’indomani della sconfitta storica della sinistra il 25 settembre e in coincidenza, si è detto, con l’avvio del primo governo dichiaratamente di destra. I temi prevalenti, tali d’aver contribuito non poco alla vittoria di Fratelli d’Italia, sono il desiderio di protezione sociale e il senso “comunitario”. Temi che possono avere una declinazione di sinistra (in chiave anti-capitalista) e di destra, ma che oggi – per quanto sia difficile ammetterlo – trovano attenzione e risposte soprattutto a destra. Mentre la discriminante verticale è con la sinistra “liberal”. La quale, tra l’altro, sembra aver dimenticato la lezione gramsciana circa l’“egemonia culturale” come cornice e premessa dell’affermazione politica. Si dirà che l’Italia di oggi non assomiglia in nulla a quella di 70 e forse anche 30 anni fa. Nella società produttiva tecnologica la classe operaia si è ridimensionata e frammentata, non è più identificabile come parte costitutiva del “blocco sociale”. Tuttavia il problema, fa notare Ricolfi, è che l’antica “egemonia” è stata sostituita dalla sua soffocante caricatura: «L’ortodossia del politicamente corretto. Un’adesione che, negli ultimi quindici anni, è maturata anche grazie all’esplosione dei social, sempre più capaci di intimidire imprese, piattaforme, istituzioni con il ricatto della cancellazione e delle campagne di biasimo». Intorno a questa nuova religione civile si è costruito un inedito “establishment”, non privo di vocazione all’intolleranza.
Tra il “mondo di sopra”, comequi viene definito, fatto di rassicuranti esistenze borghesi o post-borghesi, e il “mondo di sotto”, composto da nuovi proletari alle prese con le crescenti asprezze della modernità, è cresciuto un muro. Pochi provano ad abbatterlo e la sinistra cosmopolita non sembra nemmeno avere gli strumenti culturali per farlo. C’è poi una corrente di sinistra legata al “mondo di ieri”, che ha una sua risposta ma è troppo debole per farsi sentire. E invece c’è una destra che ha imparato a parlare al “mondo di sotto”. Lo fa da tempo, come sa chi ricorda l’attivismo del missino Teodoro Buontempo nelle borgate romane. Ma adesso ha la maggioranza relativa e governa il paese. Ricolfi offre qualche utile elemento per riflettere a una sinistra che si avvia – con molta calma – verso l’ennesima rifondazione.
Secondo l’autore tra le cause della crisi c’è un egualitarismo falso e un po’ ipocrita