il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2022
Il quadro di Mondrian appeso per 77 anni al contrario
Un capolavoro di Piet Mondrian appeso per 77 anni al contrario. Se n’è accorta Susanne Meyer-Büser, curatrice della mostra “Mondrian. Evolution”, in corso al museo Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen K20 di Düsseldorf. “New York City I” – questo il titolo dell’opera astratta del fondatore del gruppo De Stijl – per anni ha girato il mondo con una preponderanza di linee orizzontali rosse, gialle e blu localizzata verso il basso. Meyer-Büser, tuttavia, ha rinvenuto una foto scattata nello studio di Mondrian pochi giorni dopo la sua morte, pubblicata sulla rivista Town and Country, che ne rivelerebbe la posizione originaria e, si presume, voluta dall’artista. L’errore, dunque, sarebbe stato commesso in partenza. L’opera continuerà però a essere esposta dal lato “sbagliato”. “Con Mondrian può starci – spiega, al Fatto, Costantino D’Orazio, storico dell’arte e divulgatore Rai – L’arte astratta è molto complessa. Mondrian teneva molto all’equilibrio cromatico di linee e rettangoli. Le opere sono oggetti vivi, e guardati da diverse angolazioni possono offrire sempre spunti nuovi. Mondrian è stato un genio assoluto e la sua opera è bella da qualsiasi angolatura”.
Molti i precedenti. Ha fatto epoca la mostra di Henri Matisse del 1961 al Moma di New York nella quale, fra le opere esposte, “Le Bateau” fu appesa a testa in giù per quasi due mesi. La Tate Modern di Londra, invece, si è accorta solo nel 2008 di aver esposto per 40 anni il celebre “Black on Maroon” di Mark Rothko ruotato di 90°, nonostante le precise indicazioni lasciate al museo inglese dal pittore. “Un errore? Dipende dai punti di vista: non credo che appendere un Mondrian al contrario possa essere uno stravolgimento del suo lavoro”, dice al Fatto Cesare Pietroiusti, artista, performer ed ex presidente del PalaExpo di Roma. “Se c’è una cosa che la ricerca artistica contemporanea consegna al ‘900 è quella di considerare l’errore come possibile generatore di senso. L’opera non è un oggetto finito, ma le sue vicissitudini rappresentano un cambiamento anche rispetto all’intenzione dell’individuo”. Pietroiusti fa l’esempio di “Stuoia o tela di Penelope”, di Pino Pascali – esposta dal 2017 alla Gnam di Roma – lavoro in lana di acciaio rimasto decenni nello studio dell’artista pugliese e completamente “rovinato” dagli agenti ossidanti. “La sua trasformazione l’ha reso completamente diverso, ma altrettanto bello”, conclude Pietroiusti.