la Repubblica, 30 ottobre 2022
La scuola pubblica non deve trasformarsi in un’Olimpiade
La discussione sul merito è ad alto tasso di fraintendimento e, per quanto preziosa nel rimettere al centro il tema educativo, grande ingiustificato assente della campagna elettorale, rischia di condurci fuori strada. Nessuno potrebbe negare alla scuola il diritto-dovere di scoprire, conoscere e valorizzare, in piena sintonia col lungimirante dettato costituzionale, i talenti degli studenti: ci mancherebbe altro che i docenti non facessero questo!
Ogni bambino e adolescente ha una passione nascosta, un’inclinazione sopita, una sensibilità speciale; è compito del docente far entrare in contatto il giovane che ha di fronte col suo “maestro interiore”: secondo Sant’Agostino era Dio, ma possiamo utilizzare questa immagine anche in senso greco, come daimon, voce segreta dell’anima, luogo del destino. Non pensiamo a chissà quali stravolgimenti. A volte la nostra piccola via di Damasco consiste nel far brillare gli occhi dei ragazzi che ci sono stati affidati. Magari soltanto per un istante. Ad esempio quando Romoletto, bocciato e negligente, iscritto all’istituto professionale per l’industria e l’artigianato, croce e delizia dell’istruzione italiana, all’ultima ora del martedì, mentre stai spiegando I fiumi di Giuseppe Ungaretti, la classe è stanca e sfinita, quasi nessuno segue, all’improvviso ti rivolge una domanda a bruciapelo: professore, dov’è morto questo poeta? E tu gli rispondi: a Milano, ma è sepolto al cimitero del Verano, a Roma. D’istinto lui ribatte: perché non ci andiamo? Lo prendi in parola: va bene, allora domani vediamoci alla stazione Termini, poi prendiamo l’autobus e facciamo lezione davanti alla sua tomba. Quelle simpatiche canaglie, giunte al cospetto del loculo ingiallito, parevano trasfigurate, nemmeno fossero diventate studenti oxfordiani.
Nel momento in cui ciò avvenisse, ed illuminazioni consimili accadono spessissimo nella tanto bistrattata scuola italiana, è fondamentale riconoscere il merito. Questo non significa distribuire ai vincitori le medaglie necessarie a farli salire sul podio isolandoli dal resto della comitiva. La scuola pubblica (elementari, medie inferiori e superiori) non è la squadra olimpica. E neppure un’azienda. Non deve produrre vittorie e sconfitte, introiti e profitti. Dobbiamo formare la coscienza dei futuri cittadini. Consegnare il testimone della tradizione. Ripristinare le gerarchie di valore nel grande mare indifferenziato e tumultuoso della Rete. Spezzare il pane della cultura. Far partecipare tutti senza lasciare indietro nessuno. Ogni apprendimento ha una forma e un tempo diverso da un altro. Modalità e idiosincrasie che vanno riconosciute, non cancellate: se puntiamo solo al traguardo finale, senza valutare il movimento registrato dall’alunno rispetto alla sua stazione di partenza, trasformiamo l’aula in un percorso di guerra. Le interrogazioni diventano povere recite. Le domande ridicoli tranelli. I diplomi patetiche coccarde. Al contrario, bisogna puntare sulla qualità della relazione umana. I docenti, sia ben chiaro, non devono mai abbassare l’asticella degli obiettivi da realizzare, ma non si possono accontentare di spiegare il programma e mettere il voto, come se fossero semplici spartitori di traffico concettuale: chi c’è c’è; chi non ascolta, o non raggiunge i risultati prefissati, lo tagliamo via come un ramo secco dall’albero. Troppo facile. Così le percentuali della dispersione e degli abbandoni, già altissime, una ferita sanguinosa nel tessuto sociale del Paese, continueranno a crescere. Il bravo insegnante lo vedi nei momenti difficili, non quando tutto funziona o sembra andar bene. La scuola è il luogo elettivo dell’errore perché svela la potenziale menzogna insita nella risposta esatta: quella che viene data nei quiz a crocetta con soluzioni da scegliere seguendo l’intuito non è vera conoscenza. Perché i nostri studenti, quando vanno all’estero a svolgere gli stage formativi, fanno spesso bella figura rispetto ai loro coetanei stranieri? Non erano andati male ai test Invalsi?
Al merito dovremmo accostare la parola inclusione. Non stiamo parlando dell’università. Ci riferiamo ai ragazzi in formazione. A cosa ti serve il tuo sapere se non lo condividi, se non lo metti a rischio, se te lo tieni solo per te? Dovremmo evitare come la peste ogni schematismo ideologico. Affranchiamoci anche, se possibile, dai discorsi astratti e teorici. Noi docenti abbiamo a che fare con le persone. Quando entriamo in classe assumiamo la responsabilità dello sguardo dei nostri studenti. Che è pre-giuridica, pre-morale, pre-sociale. Non basta eseguire il mansionario. Io ho insegnato per quarant’anni: prima ai ragazzi di borgata, poi agli immigrati (con la partecipazione attiva dei liceali italiani). I miei studenti erano tuttiunderdog: eppure sono stati loro, paradossalmente, a farmi capire che non si può essere felici se l’infelicità colpisce chi ti sta accanto.