Domani, 30 ottobre 2022
Da "Bianco. Storia di un colore" di Michel Pastoureau (Ponte alle Grazie)
In molti suoi dialoghi, Platone spiega il motivo per cui il bianco è il colore più puro e bello, e di conseguenza più adatto al culto degli dei. Si mostra nemico della tintura, del lusso, dei belletti e di tutti gli artifici di colore che modificano la natura e costituiscono pratiche indecenti o immorali. Sembra pertanto stabilire una sinonimia fra «bianco» e «non tinto».
«Il bello (è) schietto, puro, non mescolato, anzi non contagiato da carni umane e da colori e da molte altre sciocchezze mortali. L’abbigliamento (è) cosa dannosa, ingannatrice, ignobile, indegna di un uomo libero, la quale con esteriorità, colori, levigatezze e vestiti inganna». «Il bianco, così nelle opere tessute come in tutto il rimanente, è quello che più conviene ai Numi. Le tinte saran riserbate per gli ornamenti militari».
Simili idee sono state presto riprese, chiosate e sottolineate dagli storici e dagli archeologi dell’antichità classica. I quali hanno creduto, o preteso di credere, che la posizione di Platone riflettesse il pensiero dei più. Così facendo hanno contribuito a creare, dal XVIII secolo, il mito della «Grecia bianca» – mutuo l’espressione dal titolo di un bel libro di Philippe Jockey – che fino a epoche recenti ha tratto in inganno certi specialisti e il grande pubblico. No, la Grecia antica non era bianca, e nemmeno monocroma, ma rivestita di colori vivi e contrastati. Nell’èra arcaica, ai tempi di Pericle così come in età ellenistica i greci amavano i colori e se ne servivano per dipingere muri, colonne, templi, statue. Quella di una Grecia bianca è un’immagine falsa, alla stessa stregua di quella di una Roma austera e poco colorata.
Le scoperte archeologiche
Gli scavi e le ricerche dei nostri giorni, potendosi giovare di tecnologie sempre più sofisticate, confermano ciò che alcuni giovani archeologi avevano suggerito fin dagli inizi del XIX secolo: l’architettura dei templi, i fregi scolpiti, la statuaria nel complesso erano sempre dipinti e/o dorati. Durante i loro viaggi in Grecia, avevano trovato ovunque numerose tracce di policromia, fatto che avevano riferito nei loro rapporti indirizzati agli illustri studiosi che se ne restavano nelle loro accademie di Parigi, Londra, Berlino e altre città. Ma gli studiosi non si convinsero, perché i rilievi, per quanto effettuati in situ, mal corrispondevano all’immagine che si erano fatti della Grecia antica. Insomma, gli specialisti continuarono a diffondere l’immagine di una Grecia bianca, sobria, immacolata, impermeabile ai gusti barbari e alle chiassose screziature delle mode orientali.
È questa immagine falsa, che ha attraversato i decenni e che ancora ai nostri giorni compare sulle cartoline, i dépliant turistici e persino nei musei: le rovine sono bianche, è bianco il Partenone – monumento quanto mai emblematico – le statue sono state ripulite e hanno perso i colori: tutto risplende immacolato, nella luce di un’estate greca che appare eterna. Questa stessa immagine falsa sopravvive parallelamente in teatro, al cinema, in letteratura e nei fumetti. Venuta da lontano e glorificata così a lungo, sembra essere indelebile.
Colori divini
Completamente diversa è la realtà portata alla luce dai lavori degli storici e degli archeologi, dai quali non apprendiamo solo che nei templi e negli edifici pubblici tutto era tinteggiato, l’architettura come la scultura, ma anche che i pittori in genere erano pagati più degli scultori, e a volte più degli architetti. Su rilievi, fregi, frontoni e statue, si occupavano delle finiture e davano vita agli dei, agli eroi e a tutti i personaggi rappresentati.
Nello stesso modo, i colori che posavano con cura sugli elementi architettonici aiutavano a valorizzare gli assi e i piani, a creare effetti di ritmo e movimento, a suddividere l’insieme con giochi cromatici di accostamento, contrapposizione, eco o chiasmo. Ai colori si aggiungeva l’oro, in particolare sulle statue delle divinità. Le più ricche erano d’oro massiccio, oppure d’oro e avorio («criselefantine»), certe volte d’argento. Altre erano rivestite di foglia d’oro, o più modestamente realizzate in bronzo dorato. Il mondo degli dei era un universo di luce brillante, sontuoso ed eclatante.
Niente era troppo bello per i loro templi, e somme enormi venivano costantemente spese per la manutenzione delle pitture e il rifacimento dei colori o dei metalli preziosi. Queste somme costituivano un’offerta, a volte una tassa, ed erano gestite dai magistrati incaricati del culto, responsabili dei luoghi sacri. La pietra bianca lasciata a nudo, stinta o incrostata era segno di incompiutezza, di negligenza, di disordine, se non addirittura di sporcizia. La policromia, al contrario, non solo era considerata ammirevole, ma rappresentava la norma, l’ordine, il buon governo della città. Si contrapponeva da un lato al bianco, incompiuto o lasciato in sospeso, e dall’altro all’accozzaglia di colori vivaci tipici dei vicini barbari: Persiani, Medi, Traci, Galati (popolo celtico dell’Asia minore), senza contare le popolazioni più distanti, che vivevano in un’Asia esotica e portavano su di sé colori sconosciuti e disarmonici. Per la sensibilità greca, la policromia e le accozzaglie di colore sono due cose molto diverse. La prima è regolata, armoniosa, musicale; la seconda irregolare, tumultuosa, sgradevole all’occhio e alla mente.
Il bianco non è uno solo
Analogamente, per i Greci antichi c’è bianco e bianco, e Platone non ha tutti i torti allorché, per le stoffe, vanta la superiorità della tinta naturale del lino rispetto agli artifici delle diverse tinture. Infatti esistono due bianchi: uno puro, uniforme, luminoso (leukós), e l’altro opaco, sporco, ombreggiato (poliós, péras, tholerós). Il primo è saggio e degno; il secondo evoca la sporcizia, la malattia o la morte. Ma questo vale solo per le stoffe e gli indumenti, non per le pietre dei muri, né quelle dei frontoni, delle colonne e delle statue. Il buon gusto e la disciplina li vogliono dorati o tinteggiati di colori vivaci e in grande quantità.
Le recenti, spettacolari scoperte fatte in Macedonia e a Tessalonica (santuari, templi, palazzi) hanno cancellato una volta per tutte l’idea di una tavolozza greca che si limitasse a pochi colori. Camere, letti, stele, troni, arredi reali, ma anche pareti e facciate decorate con lunghi fregi istoriati sono tutti quanti dipinti, che siano di pietra, di marmo o di metallo. A tre o quattro decenni di distanza, tali scoperte hanno profondamente cambiato la nostra conoscenza della pittura greca. Non ci hanno insegnato soltanto che la tavolozza non era limitata a quattro colori (bianco, rosso, nero, giallo) come sostengono Plinio e tutti gli storici a lui successivi, ma contava in realtà fino a undici tinte differenti, declinate in sfumature e sfumature di sfumature grazie a miscele di pigmenti e alla sovrapposizione di vari strati che formavano una sorta di velature. Il bianco non dominava affatto: era un colore come gli altri.
Detto questo, l’idea della Grecia bianca si fa strada molto presto: i primi a divulgarla sono i romani, presso i quali il gusto per la cultura e l’arte greca non fa che crescere a partire dal I secolo a.C. In particolare, viene realizzato un gran numero di copie di statue, il più delle volte marmo bianco, trascurando di riprodurre la policromia degli originali. Ora, sono queste copie a esser giunte fino a noi, e non le sculture greche vere e proprie, fossero esse di pietra, bronzo o avorio. Le copie romane vengono collezionate in Italia a partire dal XV secolo, e in seguito vengono a loro volta riprodotte.
La scultura
Per tutta l’èra moderna, dunque, le une e le altre lasciano credere che la scultura greca fosse priva di colori, e che il marmo bianco fosse levigato e lasciato a nudo. Le opere di celebri scultori come Policleto, Cresila, Prassitele, Skopas, Lisippo sono note solo tramite queste copie, e per molto tempo nessuno ha sospettato che gli originali fossero stati realizzati in materiali diversi dalla pietra, e soprattutto che gli scultori che intagliavano il marmo avessero sempre lavorato insieme ai pittori, lasciando che fossero questi ultimi a prendersi cura delle finiture e della colorazione delle opere, assurdamente ammirate dai posteri per il loro preteso immacolato candore.
Citiamo come esempi di controsensi storici il Doriforo di Policleto, proveniente da Pompei, il Discobolo Lancellotti, copia in marmo di una scultura in bronzo di Mirone, e soprattutto l’Afrodite Cnidia di Prassitele, considerata da Plinio la più bella scultura al mondo. Lo stesso Plinio racconta che un giorno in cui fu chiesto a Prassitele quale delle sue opere preferisse, lo scultore avesse risposto: «Quella a cui il pittore Nicia ha aggiunto il genio della propria mano». Uno scultore immenso come Prassitele ritiene che il pittore ateniese Nicia valga più di lui. Ai suoi occhi, i colori del pennello hanno la meglio sul bianco della pietra.
È dunque questo il bianco che ammirano i romani, e la famosa leggenda di Pigmalione sembra dar loro ragione e avvalorare l’ammirevole candore della statuaria greca. La versione più nota è proposta da Ovidio nelle Metamorfosi, uno dei testi fondanti della cultura occidentale, che ha ispirato un gran numero di opere letterarie, artistiche, musicali, drammatiche e cinematografiche. Pigmalione, scultore di grande talento, si innamora di una statua che il suo cesello ha appena intagliato in un avorio «bianco come la neve». Rappresenta una giovane «tanto splendida che la natura non saprebbe fare di meglio». Invaghito, quasi stregato dall’opera, Pigmalione chiede ad Afrodite, dea dell’amore, di darle vita. La richiesta viene esaudita. Lo scultore sposa dunque la sua insolita amata, alla quale è stato dato il nome Galatea, e a lei si unisce carnalmente. Dalla loro unione nascono due figlie, Paphos e Matharmé.