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 2022  ottobre 30 Domenica calendario

Su "Il bravo infermiere" di Charles Graeber (La nave di Teseo)

Il bravo infermiere, del giornalista Charles Graeber, è il frutto di oltre sei anni di «ricerche e interviste con decine di fonti, incluso Charles Cullen». È diventato un film di Tobias Lindholm, con Jessica Chastain e Eddie Redmayne, appena uscito su Netflix. Questo libro è un’immersione nel male, e racconta una storia vera. Quella di Charles Cullen, che ha scelto di non avere pietà di nessuno.

Charles Cullen è un uomo che ha avuto un’infanzia difficile. Ultimo di otto fratelli, suo padre e sua madre sono morti quando era piccolo. In particolare, è stata la morte della madre a distruggerlo: era lei infatti l’unica sua àncora di protezione in una casa abitata da fratelli e sorelle molto più grandi di lui, problematici, che portavano con sé fidanzati occasionali ancor più problematici, che alzavano la voce e le mani e molestavano Charles. Quando sua madre è morta in un incidente automobilistico, l’hanno portata al Saint Barnabas Center, un ospedale non lontano da Livingston, in New Jersey. Charles non aveva ancora diciotto anni. Ha chiesto di vedere un’ultima volta il suo corpo, ma non gliel’hanno permesso. Non ha mai dimenticato questo trauma: ancor più che perdere la donna più importante della sua vita, non poterla vedere un’ultima volta, non poterle darle un ultimo saluto.

È stato forse questo il momento in cui ha cominciato a odiare gli ospedali. Ma anche ad amarli, in un certo senso.

Dopo la morte di sua madre, Charles ha tentato il suicidio, ha provato ad arruolarsi in Marina e ha fallito, infine si è iscritto a una scuola per infermieri e lì ha trovato la sua vocazione: lavorare negli ospedali. Erano questi gli unici luoghi in cui si sentiva protetto.

Ma qui è cominciata anche la sua crociata del male. Charles è diventato un angelo della morte, un infermiere che uccide i suoi pazienti. Un diavolo che opera nei turni di notte, che contraffà le flebo, che ordina medicinali mortali e li somministra ai pazienti. E poi aspetta nell’ombra di vedere gli effetti del suo scempio. Charles uccide; non fa quasi nient’altro nella sua vita. All’inizio con l’insulina, poi con la digossina, e poi con qualsiasi cocktail di medicinali ritenga più idoneo al suo scopo. Uccidere. Uccidere più persone possibile. Uccidere senza un’arma del delitto, e senza un movente. Scegliere i pazienti che ucciderà senza alcun criterio, quasi per caso. Uccidere senza venire scoperto, continuare a uccidere perché — forse, perché — in una vita opaca, segnata dal dolore, l’omicidio è l’unico gesto di potere, di potere sovrannaturale quasi, che Charles possa permettersi.

Sedici anni di carriera come infermiere. Otto ospedali diversi. Si stima che Charles Cullen abbia ucciso quasi quattrocento persone. Se fosse vero (è molto difficile avere una stima precisa), sarebbe il serial killer più letale della storia americana.

Il bravo infermiere fa questo, certo. Racconta la storia straziante di Charles Cullen — straziante perché nella prima metà Graeber sceglie di raccontare il maggior numero di vittime mietute da questo serial killer, a volte anche con una sola riga, mezzo paragrafo. Straziante perché potevamo esserci noi, in quella camera di ospedale, potevamo essere noi un paziente o il parente — la madre, il padre, un figlio — di quel paziente morto così, senza motivo. Magari proprio mentre stava migliorando.

Strazio però non è la sola parola che viene subito in mente leggendo questa storia. Ce n’è anche un’altra: rabbia. Graeber racconta infatti non solo un serial killer, ma il sistema che gli ha permesso di diventarlo, di continuare per oltre quindici anni i suoi delitti, di uccidere senza timore, senza freni. Il sistema è quello degli ospedali in cui ha lavorato Cullen. Ogni volta, ogni volta, gli ospedali si accorgevano che le morti dei pazienti si alzavano senza un motivo quando di turno c’era Cullen. Ogni volta, quando richiedevano un’autopsia, notavano che c’erano dei medicinali non autorizzati in quei corpi. Eppure, non denunciavano Cullen. Per la maggior parte neppure lo licenziavano. Semplicemente lo allontanavano. Il motivo? Non infangare la reputazione dell’ospedale in questione. E Cullen era pronto per un altro ospedale, e per un’altra serie indicibile di vittime casuali.

Perché il problema consisteva nel fatto che Charles era anche molto bravo nel suo lavoro di infermiere. Prima di venire allontanato in tutta fretta, e nel silenzio, era stimato e amato dai superiori e dai colleghi.

La storia di Cullen raccontata ne Il bravo infermiere è una storia vera, ma sembra un thriller. Prima ci sono i traumi infantili. Poi i tentativi di suicidio. Poi la carriera di infermiere, le morti, e intanto la vita di Cullen che va a rotoli. Decenni di crimini impuniti e poi, una svolta. Un’infermiera cardiopatica ma estremamente coraggiosa che sarà la prima, insieme a due detective che mettono in gioco tutto pur di incastrare Cullen, a raccogliere delle prove sulla sua colpevolezza. Infine, dopo la condanna di Cullen, un altro colpo di scena. A colui che dispensa morte viene chiesto di dispensare vita.

«Nessuno ti ama così intensamente come quando stai morendo»: è un pensiero di Charles, e forse una delle chiavi per provare ad accedere alla sua terribile mente. Che è poi forse il vero motivo per cui studiamo storie così crudeli, vite così tremende. Cercare di capire. Rendere giustizia ai morti. Squarciare il silenzio. In questo caso, il colpevolissimo silenzio di un sistema ospedaliero che ha preferito il suo buon nome, le sue statistiche di successo, alle vite delle persone.

È così che la storia di uno diventa la storia di molti. Come accade che smettiamo di essere persone e ci trasformiamo in mostri? Lo indagava anche Truman Capote in A sangue freddo, anche Emmanuele Carrère in L’avversario, e da noi anche Nicola Lagioia in La città dei vivi. Perché scriviamo, perché leggiamo storie così?

Forse la risposta è che abbiamo paura. Dell’imponderabile che a un certo punto può prendere possesso delle nostre vite e trasformarle in un inferno. Da qualunque parte siamo: quella della vittima, o quella del carnefice.