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 2022  ottobre 30 Domenica calendario

Da "I peccati di Marisa Salas" di Clara Sánchez (Garzanti)

Luis

Mio padre guida un camion con rimorchio da trentotto tonnellate e trascorre molto tempo fuori casa, e ciò ha fatto sì che tra me e mia madre s’instaurasse un legame che in parte lo esclude. Lo stesso vale per il fatto che io e mia madre abbiamo gli occhi azzurri e ci assomigliamo fisicamente, mentre mio padre è bruno, robusto e un po’ rozzo. Quando torna dai suoi viaggi ci guarda come due turisti di passaggio nella sua vita cupa, e incrocia le braccia sul tavolo cercando di ripiegarsi su sé stesso; a volte si allunga per aprire il barattolo dei cetriolini, e la muscolatura della sua mano e del braccio si fa largo tra i nostri arti più sottili. Mia madre gli chiede cos’ha visto di nuovo in giro, e lui fa spallucce. «Niente di meglio di questo», risponde.

C’è stato un periodo in cui ci portava dei regali ma, quando si è reso conto che non ci piacevano e che per noi era un peso doverli magnificare, ha smesso di farlo. Preferisce rimpinguare il nostro conto in banca. «Vai a vedere qualche casa», dice a mia madre. «Possiamo permetterci di comprarne una, non voglio che continui a vivere in questa». A me un anno fa ha comprato l’appartamentino che un tempo era dei portieri e che abbiamo risistemato, dandogli l’aspetto di un monolocale da giovani. Così, quando torna dai suoi viaggi, non è più costretto a vedermi non appena mette piede in casa e può godersi la presenza di mia madre, una presenza che lo ripaga di tutto quel mondo nel quale gira in lungo e in largo senza trovare niente di meglio di questo. La guarda sempre quasi vergognandosi di poterla guardare, di averla per sé, di poterla trovare tutte le volte che torna. «Non ti merito», sembra dirle continuamente, e mia madre gli versa un bicchiere di vino, gli accarezza i capelli, gli dice di andare a cambiarsi. Lui non le chiede mai spiegazioni a proposito di ciò che ha fatto durante la sua assenza, gli sembra già abbastanza che non sia fuggita con un altro uomo con gli occhi azzurri come noi. Ho sempre avuto la sensazione che, per lui, io sia una replica dozzinale di mia madre. A che scopo ci sono io, se esiste già lei? Avrebbe preferito che fossi stato un uomo forte come lui e non doversi sentire in competizione con un soggetto abulico come me.

Nel mio monolocale mi trovo bene. Metto la musica e, dopo aver concluso gli studi senza infamia e senza lode, preparo un concorso per entrare in banca. Mio padre non crede a niente di quello che faccio, sa che non faccio niente, non si aspetta niente da me, non mi chiede come vanno le cose. Considera il concorso un passatempo per giustificare la mia paghetta mensile e il fatto che vivo a scrocco. Non lo dice ad alta voce per non turbare mia madre. Sono una delle tante cose che deve mandare giù. Non che non mi voglia bene: tutte le volte che mi sono ammalato si è preoccupato molto. Semplicemente, per lui sono un estraneo, non mi capisce affatto. Non sa come incoraggiarmi, come rimproverarmi, come imporsi su di me, e io non gli facilito le cose, perché sarebbe davvero stancante intavolare con lui conversazioni profonde, ma anche conversazioni superficiali, persino frasi brevi per chiedergli se vuole il latte nel caffè.

Marisa

È una mattina soleggiata e allegra di aprile. Le persone stanno sostituendo i cappotti con i giubbotti di pelle e le giacche leggere, e la vetrina della libreria del centro commerciale risplende con l’ultima novità letteraria di cui parlano tutti, Sogni insondabili.

All’interno, la foto del suo autore, Luis Isla, è appoggiata su pile da cinquanta copie, ciascuna delle quali produce una sensazione così irresistibile che non posso evitare di prenderne una, sfiorarne le lettere in rilievo — una di quelle carezze inconsapevoli che vengono da sole — e aprirla.

«Una grande storia e una grande scoperta, questo ragazzo», mi dice Simón, il libraio, con l’entusiasmo che riserva solo ai lanci importanti. L’atmosfera intorno al tavolo delle novità è estiva, quasi soffocante. Simón non consiglierebbe un libro in cui non crede, aggiunge nel tentativo di sorprendermi con la guardia abbassata affinché compri qualcosa: una speranza che coltiva da anni. Normalmente vengo qui per sfogliare un po’ le novità in attesa che approdino alla biblioteca pubblica per poi prenderle in prestito. Non sono disposta a sborsare neanche un euro per un’industria che trent’anni fa mi ha trattato con indifferenza, per non dire disprezzo. Ormai chi si ricorda più del mio unico romanzo, Giorni di sole, pubblicato nel 1989, fuori catalogo, introvabile, dimenticato?

«Vedo che Carolina Cox ha pubblicato un nuovo libro», dico indicando una collinetta di volumi sepolta dalle grandi montagne della novità.

«Non sta bene che lo dica», commenta lui, «ma francamente non c’è paragone tra Sogni insondabili e l’ennesimo volume ripetitivo di Carolina».

Avverto una bella sensazione nel cuore, una specie di amore nei confronti di Simón. Lui non può sospettare che Carolina ha pubblicato il suo primo romanzo proprio quando l’ho fatto anch’io, e per giunta con lo stesso editore, con la differenza che lei ha trionfato alla grande mentre io sono scomparsa: una moneta lanciata in aria che l’universo ha girato a suo favore. «Non si possono portare avanti sempre gli stessi scrittori», prosegue Simón. «La letteratura ha bisogno di sangue fresco, e Sogni insondabili lo è.»

È questa affermazione a spingermi a dare un’occhiata alla prima pagina con la speranza che sia davvero meglio di qualunque cosa abbia scritto Carolina. E sono costretta a chiudere il libro. Non mi sarei mai aspettata di leggere ciò che leggo. Sarà un’illusione, come quando pensi di conoscere qualcuno che non conosci o credi di aver visto qualcosa che non hai visto, oppure fai uno di quei sogni lucidi e premonitori su qualcosa che potrebbe succedere. In ogni caso, non riesco a impedire che il mio cuore cominci a battere più forte di quanto sia salutare. Forse è il caldo e quella sorta di radiazione emanata dall’accumulo di libri, ma anche un avvertimento del fatto che di tanto in tanto dovrei controllarmi la pressione — non sono più una ragazzina.

Riapro il volume e leggo di nuovo parole che riconosco dentro di me. O magari è un segnale lanciato da Carolina per ricordarmi ancora una volta che lei è dentro la vetrina e io fuori? Mi sento stravolta, nauseata, come se avessi corso e sudato e poi avessi bevuto un bicchiere d’acqua gelata. Per tranquillizzarmi apro il libro a metà e leggo mezza pagina. Non posso fare a meno di appoggiarmi al tavolo delle novità, e mi accorgo che mi esce un filo di sangue dal naso. Cade una goccia che impiastriccia la parola «mare», perciò non posso rimettere il libro al suo posto e vado verso la cassa a pagare sotto lo sguardo sorpreso di Simón. Probabilmente è la prima volta che mi vede uscire con un sacchetto dalla libreria, insieme al quale mi tende un pezzo di ovatta.

Non posso fargli una colpa di non aver letto Giorni di sole e di non sapere della sua esistenza. All’epoca passò inosservato a causa della scarsa tiratura e perché quelle poche copie furono distrutte dalla casa editrice per fare spazio nei magazzini, non senza prima avermelo comunicato nel modo più freddo e stringato possibile. Sono quasi sicura di non averne conservata neanche una copia. I traslochi, le responsabilità e l’impegno per dimenticare che avevo scritto un romanzo sono riusciti a far sì che voltassi pagina, che sradicassi Giorni di sole dalla mia vita come quei genitori che uccidono i figli per tentare di tornare alla spensieratezza di un tempo. Uno però non smette di essere genitore anche se ha ucciso i figli, ormai il danno è fatto. E il mio romanzo è scomparso nello spazio profondo come Giorni di sole, per tornare molto tempo dopo trasformato in Sogni insondabili dell’affascinante Luis Isla.

Il centro commerciale è a quattro chilometri da casa, e di solito io e Mauricio ci andiamo in macchina. Adesso però ho bisogno di camminare per scrollarmi di dosso l’impressione di aver letto il mio romanzo in un altro libro, trecento pagine abbandonate all’oscurità che persino io avevo finito per rinnegare quando avevo gettato nella raccolta differenziata le poche copie omaggio che la casa editrice mi aveva concesso. Nel tragitto ho il tempo di fare una sosta in un bar, prendere un caffè, andare in bagno, sostituire il pezzo di ovatta nel naso con un pezzo di carta igienica, guardarmi in uno specchio appannato da centomila aliti differenti e sentirmi confusa, sentirmi male, per essere arrivata a sessant’anni senza essermene resa conto, per essermi ibernata in una capsula invisibile ed essermi svegliata di punto in bianco. Ho aperto gli occhi all’improvviso, e non capisco niente. Ho bisogno di tempo per tornare con i piedi per terra e salutare come se fosse un giorno qualunque Mauricio, che starà innaffiando il piccolo giardino dell’ingresso in maglietta e pantaloni corti del pigiama.