La Stampa, 30 ottobre 2022
Il verbo e il corpo
Di Michela Murgia, in God save the queer (Einaudi Stile Libero), c’è tutto. Ci sono la fede e la modernità. La capacità di indagare il sacro e quella di rappresentarlo attraverso le parole. Il femminismo, la tecnologia, uno sguardo aperto sulla vita che è, sempre, mutamento. E che per questo nulla può pretendere di fissare. C’è, al fondo, la libertà di una scrittrice che può spaziare dalla Bibbia a Harry Styles a Cenerentola passando per David Bowie e Il giovane Holden, senza smettere di parlare di noi.Ci incontriamo nei giorni della fiducia del Parlamento al governo di Giorgia Meloni. Della circolare di Palazzo Chigi con l’indicazione di chiamare la prima premier italiana «il signor presidente del Consiglio», poi corretta in «il presidente del Consiglio». Così è naturale, sotto il sole di un mattino d’ottobre, partire da questo. «Sono allibita dalla simpatia che il discorso di Meloni in Parlamento ha suscitato in molte donne – dice Murgia – perché non ha sovvertito alcuno schema: non ha detto nulla che non ci si aspettasse da lei, a parte la furbata di intestarsi i percorsi di emancipazione di donne che, se l’avessero conosciuta quando erano vive, sarebbero state sicuramente dalla parte opposta delle barricate».Meloni ha riconosciuto che donne come Nilde Iotti o Tina Anselmi hanno costruito la scala che ha permesso il suo percorso. È la prima volta, non le sembra un passo avanti?«Lei beneficia oggi dei risultati del femminismo, ma il femminismo l’avrà sempre come nemica».In realtà pare voler incarnare un altro femminismo, meno simbolico, più pragmatico. Niente battaglie sui nomi, ma la rivendicazione di una presa del potere solitaria.«Confonde il potere con l’emancipazione. Il femminismo non ha come obiettivo il raggiungimento del potere, ma la messa in discussione di un modello tradizionale che lei non tocca minimamente. E che anzi incarna al meglio. A Meloni manca tutto il percorso della sorellanza, della rete. Non lotta per le altre donne».Ha ripetuto, anche in aula, che non toccherà i diritti, a partire dalla legge 194 sull’aborto.«La 194 non dice che noi possiamo abortire se lo vogliamo, dice che ci devono essere delle condizioni. Quando Meloni dice: faremo tutto quel che è scritto nella legge, significa che può far sì che quelle condizioni debbano essere certificate da un medico. Così tu dovrai affrontare il consultorio con i pro vita, trovare un dottore che certifichi che hai diritto a interrompere la gravidanza, poi trovarne un altro non obiettore. Sono molto spaventata perché credo che su questi temi saranno feroci e nello stesso tempo diranno: non stiamo toccando niente».Di certo non si potrà pensare all’adozione dei figli del partner nelle famiglie arcobaleno o a una legge contro l’omotransfobia.«E invece io credo che le battaglie che dobbiamo fare non siano di difesa. Bisogna avere il coraggio di alzare l’asticella, dire che vogliamo di più e chiederlo direttamente a questo governo, altrimenti sì che ci ricacciano indietro».Cosa pensa del cambio di nome dei ministeri?«Sono convinta che il modo in cui chiami le cose sia il modo in cui inevitabilmente finisci per trattarle. Sulla questione della scuola e del merito, Giuseppe Conte in aula ha citato una frase meravigliosa: la scuola non è il luogo dell’eccellenza, ma del riscatto. So che la lotta di classe è fuori moda, ma mentre noi decidevamo che non si porta più, le diseguaglianze sono aumentate. Meloni ha fatto una costruzione di sé come underdog, la perdente che sovverte i pronostici, che non sta in piedi: a 29 anni era deputata e a 31 ministro».Per arrivare dov’è però ha lavorato senza mettersi dietro a un padrino, anzi sfidando i leader.«Il Pd ha un problema che può risolversi solo lui, quanto a donne che stanno dietro agli uomini. Tornando a Meloni, ognuno fa la narrazione di sé che preferisce. A me stupiscono le persone che le credono. Anche a sinistra. A chi dice: “Anche se non viene dal nostro mondo dobbiamo lasciarla lavorare”, rispondo: non è che non abbia mai lavorato. La conosciamo, sappiamo quel che pensa».Non sembra avere fiducia nel Pd.«È irredimibile. La penso come Rosy Bindi. Conte sta occupando i temi che dovevano essere della sinistra».Conte è sempre quello che ha votato i decreti sicurezza, i 5 stelle sull’immigrazione hanno avuto per anni una posizione molto simile a quella di Meloni.«Credo che stia facendo prendere al Movimento un’altra strada. Se il Pd avesse accettato di fare un accordo con loro alle politiche oggi avremmo sicuramente un Pd più di sinistra e un M5S meno nel caos. Era meglio perdere i renziani ancora dentro che la possibilità di quell’alleanza».All’inizio del suo libro cita una riflessione di Chiara Valerio. Io ho sempre pensato che nominare significasse far esistere qualcosa, lei invece dice: nominare significa escludere.«È vero che, nominando, trasformi le cose in fenomeni che non possono essere più ignorati, ma è anche vero che ogni nominazione rischia di essere dogmatica. Tutto quello che esiste deve entrarci e così si creano ulteriori scatole. Per questo mi piace il concetto di queer: l’atto del queering è una scatola senza i lati, prende la forma di quello che ci entra dentro, anziché il contrario. Ed è la ragione per cui è visto con così grande sospetto anche all’interno del mondo Lgbtqia+».Questa indefinitezza dei confini, queste identità liquide, è come se alimentassero nuove paure. Nel mondo avanzano forze che usano parole d’ordine antiche, una religiosità pervasiva che confligge con una società secolarizzata. Penso ai teocon americani, a Trump, a Orban, ai polacchi, a Putin. In God save the queer, lei riesce a tenere insieme tutto. La religione non è più gerarchia, la stessa Trinità non lo è, come nell’icona di Andrej Rublëv.«Credo che la differenza sia tra il concetto di conservazione e il fatto che noi siamo mutamento. Se ti spaventa il mutamento intorno a te, ti spaventa anche il tuo. È per questo che per me categorie come omo, etero, non hanno significato. Sono statiche, fasi che non possono definire un’identità. Se la forma diventa la tua sostanza, nel momento in cui la tua sostanza cambia e tu non hai un’altra forma, rimani in gabbia. Trovo tra gli omosessuali e le lesbiche molta difficoltà anche con la stessa categoria di bisessuale. Ti dicono: sei un irrisolto, non sei sufficientemente coraggioso, ti chiedono di irrigidire la tua natura. E tu dici: ma io non la voglio irrigidire, perché oggi è così ma domani no e io rimango me stessa. Non è la stasi a definirci, ma il mutamento».Parla dei diversi modi di essere cristiano: chi lo è per aderire a una forma che non sente, ma che lo rassicura, e chi lo è nel profondo.«Ricorda la formula che utilizzava il cardinal Ruini quando era presidente della Cei? Parlava di valori non negoziabili. Ma non esistono nel consesso umano valori non negoziabili. Tutto è negoziabile, perché siamo tutti diversi, la democrazia è l’esercizio della negoziazione più estremo che ci sia. Anche la pace si fa con i negoziati. Il cattolicesimo è sopravvissuto per 2000 e passa anni negoziando forme diverse, altrimenti sarebbe stato sterminato nel primo secolo».E quindi anche la religione può essere aperta, inclusiva, fluida.«Nell’icona di Rublëv si vedono tre persone che pur avendo un’identità specifica non hanno confini così netti da poter dire dove finisce uno e dove comincia l’altro. Quello per il cristiano deve essere il massimo dei conforti possibili. Il problema è che a noi non hanno proposto come modello sociale quella Trinità: hanno proposto la famiglia di Nazareth, che nel Vangelo non è il modello di niente. Quando qualcuno va da Gesù cercando di fargli dire qualcosa di familistico tipo “sono venuti qui tua madre e tuo fratello a chiamarti perché stai facendo un po’ il pazzo in piazza”, lui dice “chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?”, cioè io giudico sulla base di chi fa la volontà del Padre, non ci sono titoli e ruoli, non li riconosco. Quando dice con durezza “io sono venuto a portare la spada, non la pace, tra il padre e il figlio, tra la madre e la figlia”, mette in crisi i cultori della famiglia tradizionale».Esiste la famiglia tradizionale?«Quel modello nasce negli anni Sessanta, padre, madre e due bambini, ed è celebrato dal Mulino Bianco, ma la famiglia tradizionale rurale era una famiglia allargata in tutti i sensi, dove anche i confini tra fratelli e cugini non erano così netti».È un modello costruito?«Sì e neanche lo applichiamo più. Siamo uno dei Paesi al mondo che fa meno figli in assoluto, più di metà della popolazione è in un nucleo familiare singolo. I modelli di relazione sono già altri e si è visto quanto corta fosse la coperta nel momento in cui, durante il lockdown, ci hanno detto: devi stare con i congiunti. Io sapevo con chi volevo stare, ma legalmente quelle persone non erano la mia famiglia».Ha dedicato questo libro, alla sua famiglia.«Siamo otto e ciascuno di noi ha realtà diversissime, orientamenti diversissimi, ma abbiamo stipulato patti di reciproca responsabilità. Se uno si ammala, se uno ha bisogno, ci siamo l’uno per l’altro o per l’altra. Il fatto che lo Stato riconosca soltanto forme di aggregazione in coppia, riportando il rapporto affettivo solo a un binomio, fa ridere perché nei fatti non è così».C’è un capitolo su quanto la tecnologia cambi la realtà, ricreandola. Lei considera il virtuale reale quanto la vita fisica?«Io non credo che il corpo ci determini. Se una persona con una disabilità si costruisce una identità digitale in cui non dichiara quella disabilità, è forse meno reale? Mi rifiuto di essere inchiodata al mio dato biologico e credo che questo sia molto femminista. Il mio corpo non è la mia identità, per questo non ho problemi se una persona trans dice: io sono questo. Lo accetto, non vedo cos’altro potrei fare. E mi dà fastidio che a non accettarlo siano a volte le donne che hanno combattuto per anni il fatto di essere ridotte a un corpo, trattate come merce».La scelta di Giorgia Meloni di chiamarsi il presidente è una scelta queer?«Ma è così! L’unico motivo per cui una donna dovrebbe rifiutare di farsi declinare al femminile è una disforia di genere, che dubito però la riguardi. In realtà il tentativo è quello di svuotare di significato le battaglie sul linguaggio, che invece sono importanti perché la lingua è l’infrastruttura del pensiero. Loro continuano a dire “non conta niente”, ma allora perché impiegano tanta energia? Sanno che conta, sanno che se tu cambi i nomi, cambi anche i rapporti tra le cose».