La Stampa, 30 ottobre 2022
Cent’anni fa la prima legge italiana sulla tutela del paesaggio
L’11 giugno 1922 Vittorio Emanuele III promulgava la prima legge italiana sulla tutela del paesaggio. A controfirmarla furono il presidente del Consiglio Facta e il ministro della Pubblica Istruzione Anile; ma a buon diritto essa è nota col nome di «Legge Croce». Fu infatti il grandissimo pensatore napoletano a presentarla al Senato, da ministro di un governo Giolitti.
Sul tema già la legge Rava del 1909 per la tutela del patrimonio archeologico, storico e artistico, diceva qualcosa: ma l’estensione al paesaggio, approvata dalla Camera, fu respinto in Senato. Per iniziativa del deputato Rosadi, dal 1910 in poi cinque disegni di legge in merito fecero la spola fra le Camere, ma invano. A riprendere il discorso giovarono il diffondersi di questo tema nel resto d’Europa e i movimenti dell’opinione pubblica per disincagliare la legge Rava dalle secche parlamentari. Si era allora lanciata una petizione forte di 360 firme, tra cui 43 senatori e personaggi di spicco come Giacomo Puccini, Gaetano Salvemini, Adolfo Venturi, Pietro Toesca; e Benedetto Croce ne era stato in questa fase fra i più lucidi promotori, impegnandosi anche in singole battaglie, come quella per prevenire la ventilata lottizzazione di Villa Borghese, che nessuno poteva più escludere dopo quella di Villa Ludovisi.
Segnali positivi furono la legge per la tutela della pineta di Ravenna (1905) e l’istituzione delle Soprintendenze territoriali (1907). Associazioni come il Touring Club (fondato nel 1894) diffondevano nel Paese una nuova coscienza paesaggistica, e nel 1913 si formò in tal senso una sorta di «cartello» che includeva dieci associazioni, sei ministeri, tra cui la Pubblica Istruzione, le Ferrovie dello Stato ed altre istituzioni. Nuovo impulso al tema dette il governo Nitti, che istituì (1919) un Sottosegretario alle Antichità e Belle Arti. Il veneziano Molmenti, primo sottosegretario, nominò una commissione «incaricata a preparare uno schema di iniziativa legislativa per la difesa e il rispetto delle bellezze naturali d’Italia». Tre mesi di lavoro bastarono a redigere il disegno di legge (marzo 1920), ed è qui che entra in scena da protagonista Benedetto Croce, senatore dal 1910 e ministro della Pubblica Istruzione nell’ultimo governo Giolitti (giugno 1920 – luglio 1921).
Ci volle molta determinazione e tenacia perché la legge andasse in porto. Croce presentò la legge in Senato il 25 settembre 1920, e ne ottenne presto l’approvazione (31 gennaio 1921) trasmettendolo alla Camera, ma le elezioni anticipate fecero decadere il ddl. Croce lo ripresentò tal quale subito dopo le elezioni, e in un anno si giunse all’approvazione finale. La relazione «Per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico», letta da Croce al Senato il 25 settembre 1920, merita di esser letta come il testo-cardine di una svolta politica, culmine di un processo che aveva attraversato cinque legislature.
L’esordio è appassionato: «Che una legge in difesa delle bellezze naturali d’Italia sia invocata da più tempo e da quanti uomini colti e uomini di studio vivono nel nostro Paese, è cosa ormai fuori da ogni dubbio»; la legge dovrà «porre, finalmente, un argine alle ingiustificate devastazioni che si van consumando contro le caratteristiche più note e più amate del nostro suolo». Croce cita poi una dichiarazione di Nitti, secondo cui la necessità di «difendere e mettere in valore, nella più larga misura possibile, le maggiori bellezze d’Italia, quelle naturali e quelle artistiche» risponde ad «alte ragioni morali e non meno importanti ragioni di pubblica economia». Discorso assai incisivo, che strettamente congiunge le esigenze della tutela a quelle dell’economia (la «valorizzazione» del patrimonio culturale non è dunque un’invenzione del nostro tempo, come qualcuno ama credere).
Perché tutelare il paesaggio? Un «altissimo interesse morale e artistico legittima l’intervento dello Stato», risponde Croce: poiché il paesaggio «altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari (...), con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo, quali si sono formati e son pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli». Si nasconde qui una citazione della formula, attribuita a Ruskin, secondo cui il paesaggio è «il volto amato della Patria». Croce cita Ruskin come l’iniziatore del movimento europeo in difesa del paesaggio, a partire dal 1862, quando egli «sorse in difesa delle quiete valli dell’Inghilterra minacciate dal fuoco strepitante delle locomotive e dal carbone fossile delle officine».
Accanto al quadro internazionale, Croce indicò anche un precedente nella legislazione preunitaria, i tre Rescritti borbonici (1841-43) a protezione delle più belle vedute di Napoli, e alla Camera Augusto Mancini citò la «servitù di veduta» già prevista da Giustiniano nel VI secolo a tutela dei paesaggi intorno a Costantinopoli. Perciò, scrive Croce, su questi temi le limitazioni alla proprietà privata sono «una servitù per pubblica utilità», poiché deve prevalere «ciò che è in cima ai pensieri di tutti, l’economia nazionale e la conservazione del privilegio di bellezza che vanta l’Italia», e dunque lo «sviluppo dell’anima nazionale».
La legge Croce concludeva la vicenda delle leggi di tutela dell’Italia liberale. Due punti erano decisivi nella sua argomentazione: la priorità del pubblico interesse su quello privato e il contesto internazionale, dalla legge francese del 1906 alla Costituzione della Repubblica di Weimar (1919), che tutelava il paesaggio (art. 150). Quando la Legge Croce venne promulgata (giugno 1922), l’Italia era alla vigilia di prove durissime: la dittatura e la repressione delle libertà, le leggi razziali, l’alleanza con la Germania nazista, e infine una guerra che portò la morte nelle famiglie, la devastazione nelle città. Da quegli anni oscuri l’Italia seppe riscattarsi con la Resistenza, la Repubblica e la Costituzione, dove per la prima volta al mondo la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico entrava tra i principi fondamentali dello Stato. L’art. 9, nella smagliante forma in cui fu approvato dalla Costituente, fu proposto da due Costituenti, il comunista Concetto Marchesi e il giovane Aldo Moro, democristiano. Essi avevano in mente le norme allora vigenti, e cioè le leggi Bottai del 1939, che però non ebbero nulla di specificamente fascista, anzi confermavano le leggi dell’Italia liberale, quella del 1909 (Rava) e del 192 (Croce).
Il nesso forte fra «promozione della cultura» e «tutela del paesaggio», in cui s’incarnava lo spirito dell’art. 9, investe i cittadini e la politica di una forte responsabilità: cogliere nella storia e nella bellezza valori essenziali per la dignità dei cittadini, per la solidarietà nazionale e per la costruzione di un buon futuro per le generazioni a venire. Croce ben conosceva le parole di Tocqueville: per salvare un Paese dal dispotismo nulla vale quanto la consapevolezza storica trasmessa anche attraverso l’arte. La sua concezione del paesaggio fu storica, estetica e giuridica. Ma fu soprattutto carica di valori etici: ed è a questa sua anima profonda che dovremmo ancor oggi essere fedeli.