la Repubblica, 30 ottobre 2022
Merito, pro e contro
Luca Ricoldi per la Repubblica
La parola “merito” è sotto attacco. È bastato che il ministero dell’Istruzione fosse ribattezzato “dell’Istruzione e del merito” per scatenare le critiche: promuovere il merito nella scuola equivarrebbe a favorire selezione e discriminazione.
L’argomentazione dominante ricalca, in parte fraintendendola, la tesi di un recente libro del grande filosofo morale Michael Sandel (La tirannia del merito, 2020). L’idea base è che, in una società perfettamente meritocratica, in cui il successo dipendesse esclusivamente dal talento e dall’impegno, i vincenti diventerebbero tracotanti, in quanto finirebbero per attribuire solo a sé stessi il proprio successo, e i perdenti si sentirebbero umiliati, perché la società attribuirebbe i loro insuccessi ad essi soltanto, anziché alla sfortuna e alle diseguaglianze di partenza. Insomma la meritocrazia, se pienamente applicata, produrrebbe una società distopica, come del resto aveva profetizzato il sociologo Michael Young, che il termine “meritocrazia” l’ha inventato (L’avvento della meritocrazia, 1958).
Secondo questa lettura, l’esplosione dei movimenti populisti in occidente sarebbe una risposta alla frustrazione dei perdenti della globalizzazione, cui per decenni si è raccontato che vivevano in una società basata sul merito, mentre in realtà li si costringeva a competere in una società basata sul mercato, sostanzialmente incapace di offrire a tutti condizioni di partenza comparabili. In realtà, il vero punto controverso nelle discussioni sul merito è il talento. La teoria liberale dell’eguaglianza considera ingiustificate le differenze economico- sociali nei punti di partenza, ma considera legittime le differenze che scaturiscono dall’impegno (o sforzo) e dal talento (I paradossi dell’uguaglianza, Nagel 1991). Questo approccio conduce dritti dritti all’articolo 34 della Costituzione, secondo cui «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Nella concezione dei padri costituenti, la scuola non deve solo insegnare e valutare, ma anche assicurare che le chances di ascesa sociale dei capaci e meritevoli non siano messe a repentaglio dall’origine sociale.
Perché il talento è il punto controverso? Perché è un dono, di cui il singolo non ha merito, se non nel senso che può coltivarlo con maggiore o minore dedizione. Ma allora perché la teoria liberale dell’eguaglianza accetta che, una volta attenuate le differenze nei punti di partenza, non solo l’impegno ma anche il talento venga premiato? Perché considera ingiustificate le differenze dovute all’origine sociale, ma accetta quelle dovute alle dotazioni naturali? Una ragione l’abbiamo già menzionata: nella maggior parte delle situazioni, separare talento e impegno è praticamente impossibile. Una seconda ragione è che una società che non premiasse il talento sarebbe meno prospera e meno libera di una società che lo premiasse. Una terza ragione, importantissima, è che una società che volesse compensare l’eccesso di talento si trasformerebbe anch’essa in una mostruosa distopia, in cui i più dotati verrebbero gravati di umilianti fardelli e handicap. E anche in questo caso c’è uno scrittore, Kurt Vonnegut, che ha provato a descrivere questo incubo egualitario. Nel racconto Harrison Bergeron, uscito nel 1961, Vonnegut descrive una società in cui le differenze di talento sono sistematicamente neutralizzate da handicap imposti ai più dotati: occhiali per ridurre la vista a chi ci vede troppo bene, pesi per rallentare le persone più veloci, maschere orribili per nascondere l’aspetto dei più belli, disturbi radio nelle orecchie dei troppo intelligenti, e così via.
Ma la ragione più importante per cui è cruciale premiare non solo l’impegno ma anche il talento è che entrambi, ma segnatamente il talento, sono potentissimi meccanismi egualitari. Proprio perché è un dono, il talento è distribuito in modo casuale, cioè indipendentemente dalla condizione sociale. In una società che lo valorizza, il talento può diventare un’arma cruciale a disposizione dei ceti subalterni per compensare gli svantaggi dell’origine. In una società che non premiasse il merito, e ancor più in una che trovasse il modo di non premiare il talento, o addirittura di punirlo (la distopia di Vonnegut), le classi subordinate risulterebbero disarmate, e quelle superiori avrebbero molte più possibilità di far valere le armi di cui hanno il monopolio: reddito, ricchezza, relazioni sociali.
Chi dà qualche importanza all’ideale egualitario, dovrebbe rallegrarsi che la scuola, dopo decenni in cui l’articolo 34 della Costituzione è stato sostanzialmente disatteso, si ponga il problema di premiare il merito. L’alternativa è continuare come prima, perpetuando la scuola degli ultimi 50 anni. Una scuola che, in nome di una malintesa interpretazione del principio di eguaglianza, ha drammaticamente abbassato il livello degli studi, ha rinunciato e premiare i capaci e meritevoli, e in questo modo ha finito per allargare il fossato fra chi ha una famiglia alle spalle e chi – per emergere – può contare solo sul proprio talento e ilproprio impegno.
Eraldo Affinati per la Repubblica
La discussione sul merito è ad alto tasso di fraintendimento e, per quanto preziosa nel rimettere al centro il tema educativo, grande ingiustificato assente della campagna elettorale, rischia di condurci fuori strada. Nessuno potrebbe negare alla scuola il diritto-dovere di scoprire, conoscere e valorizzare, in piena sintonia col lungimirante dettato costituzionale, i talenti degli studenti: ci mancherebbe altro che i docenti non facessero questo!
Ogni bambino e adolescente ha una passione nascosta, un’inclinazione sopita, una sensibilità speciale; è compito del docente far entrare in contatto il giovane che ha di fronte col suo “maestro interiore”: secondo Sant’Agostino era Dio, ma possiamo utilizzare questa immagine anche in senso greco, come daimon, voce segreta dell’anima, luogo del destino. Non pensiamo a chissà quali stravolgimenti. A volte la nostra piccola via di Damasco consiste nel far brillare gli occhi dei ragazzi che ci sono stati affidati. Magari soltanto per un istante. Ad esempio quando Romoletto, bocciato e negligente, iscritto all’istituto professionale per l’industria e l’artigianato, croce e delizia dell’istruzione italiana, all’ultima ora del martedì, mentre stai spiegando I fiumi di Giuseppe Ungaretti, la classe è stanca e sfinita, quasi nessuno segue, all’improvviso ti rivolge una domanda a bruciapelo: professore, dov’è morto questo poeta? E tu gli rispondi: a Milano, ma è sepolto al cimitero del Verano, a Roma. D’istinto lui ribatte: perché non ci andiamo? Lo prendi in parola: va bene, allora domani vediamoci alla stazione Termini, poi prendiamo l’autobus e facciamo lezione davanti alla sua tomba. Quelle simpatiche canaglie, giunte al cospetto del loculo ingiallito, parevano trasfigurate, nemmeno fossero diventate studenti oxfordiani.
Nel momento in cui ciò avvenisse, ed illuminazioni consimili accadono spessissimo nella tanto bistrattata scuola italiana, è fondamentale riconoscere il merito. Questo non significa distribuire ai vincitori le medaglie necessarie a farli salire sul podio isolandoli dal resto della comitiva. La scuola pubblica (elementari, medie inferiori e superiori) non è la squadra olimpica. E neppure un’azienda. Non deve produrre vittorie e sconfitte, introiti e profitti. Dobbiamo formare la coscienza dei futuri cittadini. Consegnare il testimone della tradizione. Ripristinare le gerarchie di valore nel grande mare indifferenziato e tumultuoso della Rete. Spezzare il pane della cultura. Far partecipare tutti senza lasciare indietro nessuno. Ogni apprendimento ha una forma e un tempo diverso da un altro. Modalità e idiosincrasie che vanno riconosciute, non cancellate: se puntiamo solo al traguardo finale, senza valutare il movimento registrato dall’alunno rispetto alla sua stazione di partenza, trasformiamo l’aula in un percorso di guerra. Le interrogazioni diventano povere recite. Le domande ridicoli tranelli. I diplomi patetiche coccarde. Al contrario, bisogna puntare sulla qualità della relazione umana. I docenti, sia ben chiaro, non devono mai abbassare l’asticella degli obiettivi da realizzare, ma non si possono accontentare di spiegare il programma e mettere il voto, come se fossero semplici spartitori di traffico concettuale: chi c’è c’è; chi non ascolta, o non raggiunge i risultati prefissati, lo tagliamo via come un ramo secco dall’albero. Troppo facile. Così le percentuali della dispersione e degli abbandoni, già altissime, una ferita sanguinosa nel tessuto sociale del Paese, continueranno a crescere. Il bravo insegnante lo vedi nei momenti difficili, non quando tutto funziona o sembra andar bene. La scuola è il luogo elettivo dell’errore perché svela la potenziale menzogna insita nella risposta esatta: quella che viene data nei quiz a crocetta con soluzioni da scegliere seguendo l’intuito non è vera conoscenza. Perché i nostri studenti, quando vanno all’estero a svolgere gli stage formativi, fanno spesso bella figura rispetto ai loro coetanei stranieri? Non erano andati male ai test Invalsi?
Al merito dovremmo accostare la parola inclusione. Non stiamo parlando dell’università. Ci riferiamo ai ragazzi in formazione. A cosa ti serve il tuo sapere se non lo condividi, se non lo metti a rischio, se te lo tieni solo per te? Dovremmo evitare come la peste ogni schematismo ideologico. Affranchiamoci anche, se possibile, dai discorsi astratti e teorici. Noi docenti abbiamo a che fare con le persone. Quando entriamo in classe assumiamo la responsabilità dello sguardo dei nostri studenti. Che è pre-giuridica, pre-morale, pre-sociale. Non basta eseguire il mansionario. Io ho insegnato per quarant’anni: prima ai ragazzi di borgata, poi agli immigrati (con la partecipazione attiva dei liceali italiani). I miei studenti erano tuttiunderdog: eppure sono stati loro, paradossalmente, a farmi capire che non si può essere felici se l’infelicità colpisce chi ti sta accanto.