la Repubblica, 30 ottobre 2022
Intervista alla studentessa violentata dall’infermiere
«Mi ha attirata dentro la stanza con la scusa di dover fare una flebo a un paziente, ma era vuota. Lui ha chiuso la porta a chiave – dice, prima di interrompersi per respirare e ricacciare indietro le lacrime – Era il mio ultimo giorno di pratica, non ci riesco a pensare». È ancora molto scossa Marta (nome di fantasia), 20 anni, la studentessa in Infermieristica vittima della violenza sessuale nella notte tra mercoledì e giovedì, in un angolo isolato del reparto di Urologia del policlinico Umberto I, il più grande ospedale di Roma. La 20enne, ora che è al sicuro, assistita al suo avvocato Carla Corsetti del Foro di Frosinone, ripercorre con Repubblica gli attimi terribili vissuti nella stanza al terzo piano del padiglione 29.
Cosa è successo mercoledì?
«Sono andata lavorare per fare il turno di notte. Il mio piano di studi prevede 180 ore di pratica suddivise in sei cicli da 30 ore.
Quello di quattro giorni fa era l’ultimo giorno di pratica del corso. Ero contenta di aver finito».
Il suo aggressore la conosceva bene?
«Sì – sospira, chiudendo gli occhi – quell’infermiere non era solo un futuro collega più esperto. Era stato indicato come mio tutore durante la pratica universitaria. Io durante ogni turno stavo accanto a lui per imparare, facevo quello che mi diceva».
Quale scusa ha usato per attirarla dentro la stanza?
«Stavamo facendo un giro pazienti, a un certo punto, verso le 23.30, mi ha detto: “Marta, seguimi, dobbiamo andare di là a cambiare la flebo a un paziente”».
Dove l’ha portata?
«In una stanza piuttosto piccola, isolata rispetto al resto del reparto.
Ultimamente ci sono stati dei lavori di ristrutturazione dell’edificio, quell’ala era stata chiusa, non l’avevo mai vista».
Non c’era nessuno che potesse soccorrerla?
«No, non c’era nessuno nelle vicinanze. Quando siamo arrivati davanti a questa stanza, ho visto una lettiga vuota, non c’era nessun paziente. Non ho avuto il tempo di fare nulla. Mi ha dato una spinta, si è chiuso la porta alle spalle, ha girato a chiave e poi mi è saltato addosso».
Lei è riuscita a gridare?
«Ho urlato quando mi ha spinta sulla lettiga, ma non è venuto nessuno. Perché lì nessuno poteva sentirmi, lui lo sapeva».
Come ha fatto a liberarsi?
«Ormai aveva già fatto tutto, io ero disperata, mi sentivo male. Lui non mi ha lasciato andare via. Non voleva che chiamassi i soccorsi.
Allora mi sono inventata una scusa, gli ho detto che sarei tornata e sono scappata».
Dove è andata?
«Sono corsa per le scale, sono uscita dalla palazzina e sono andata da un mio amico che stava facendo la pratica in un altro reparto. Lui mi ha accompagnata subito al pronto soccorso, ho avvisato per telefono mia madre che è arrivata con Carla, che è il mio avvocato, ma prima di tutto è una cara amica di famiglia, mi conosce da anni».
L’hanno soccorsa immediatamente?
«I medici hanno attivato subito il percorso rosa, mi hanno fatto visitare da una donna, il mio avvocato mi ha seguita durante tutta la procedura per sincerarsi che venisse eseguita correttamente. Poi sono andata a casa».
Il suo aggressore nel frattempo è scappato?
«No, da quello che so io, la polizia l’ha trovato in reparto, stava lavorando come se nulla fosse successo. L’hanno portato via e denunciato. Hanno sequestrato il lenzuolo che copriva la lettiga per fare l’esame del Dna, spero concludano le indagini in fretta e che lo arrestino».
Dopo quello che le è successo cosa chiede alle istituzioni?
«Nella denuncia ho raccontato tutto. Chiedo ai magistrati di fare in fretta: una cosa del genere non deve succedere più a nessuna donna».