Corriere della Sera, 29 ottobre 2022
Intervista a Ernesto Ferrero
La costellazione Einaudi è una parte fondamentale del cielo culturale italiano. Ma questo si sa. Lo abbiamo appreso e ripetuto tante volte. La nascita della casa editrice durante gli anni del fascismo, le prime figure mitologiche, a cominciare da Leone Ginzburg e Cesare Pavese, i successivi nomi straordinari (come Calvino e Bobbio) che l’hanno irrobustita. Poi le crisi, gli scomparsi, le rinascite. E in mezzo il lungo racconto che Ernesto Ferrero ha tessuto in un godibile e malinconico Album di famiglia (il libro è appena apparso da Einaudi). Ferrero ha lavorato per più di trent’anni in casa editrice, ricoprendo vari incarichi. Organizzatore culturale (ha diretto il Salone del libro di Torino) scrittore,vincitore del Premio Strega.
Che libro pensi di aver realizzato?
«È una sorta di congedo. Forse avrei preferito scrivere un “coccodrillo” su di me, sapendo però che era difficile riuscirci. L’autobiografia, come disse Carlo Fruttero, presuppone un’idea statuaria di sé. Cosa che personalmente non credo di possedere».
Scrivi di te stesso attraverso gli altri.
«Non potrebbe che essere così. Anche così. Del resto, ho vissuto più di trent’anni nella casa editrice Einaudi.
Raccontarne i protagonisti, è chiaro, ha voluto dire interpellare anche la mia persona».
Quando è iniziata la tua avventura con Einaudi?
«Nel 1963, avevo 25 anni. Entrai per concorso».
Concorso?
«Sì, insomma un esame. Prima di assumermi volevano capire chi avessero di fronte. Non conoscevo nessuno in casa editrice che potesse garantire per me. Avevo letto un annuncio sulla Stampa, in cui si diceva che la casa editrice Einaudi cercava qualcuno per il ruolo di ufficio stampa. Risposi. Fui convocato. Ero pieno di patemi e dubbi. Non proprio convinto che in me trovassero la persona giusta».
Che cosa te lo faceva pensare?
«Le mie esperienze erano tutt’altro. Lavoravo in una società di assicurazioni, occupandomi di sinistri. Leggevo, questo sì. Ma non ero Kafka che, come si sa, oltre a scrivere era un impiegato delle Generali. Anche se proprio a Einaudi avevo inviato un mio romanzo. Ma fu una coincidenza».
Di che parlava?
«Era la storia di un ragazzo che durante il fascismo si rifiuta di eseguire gli esercizi paramilitari del sabato fascista e viene costretto da alcuni compagni di scuola a parteciparvi. Dopo il 25 luglio, quando il fascismo cade, il ragazzo si vendica e spara alcuni colpi, che vanno però a vuoto, contro i suoi persecutori. Si trattava di una storia vera che mi aveva colpito e che restituii sotto forma di romanzo. Non ci fu nessuna reazione da parte della casa editrice fino al giorno dell’esame».
Che cosa accadde?
«Davanti a me, schierati, c’erano Giulio Einaudi, Giulio Bollati, Roberto Cerati e Daniele Ponchiroli. Mi chiesero che lingue conoscessi, che cosa sapevo fare. Poi salta fuori all’improvviso questo romanzo che avevo scritto. Fu Einaudi a incuriosirsi e a chiedermi perché uno che durante gli ultimi anni del fascismo era poco più di un bambino si fosse interessato a quella storia. Risposi che la vergogna e l’indignazione che provavo per ciò che il fascismo aveva significato non avevano steccati generazionali».
Giocavi facile.
«Ma no, ero sincero. E preoccupato. Mi avevano chiesto di scrivere un risvolto di copertina a un romanzo italiano dove praticamente non succedeva niente, molto difficile da riassumere. Vidi che si passavano quel foglietto. Ero agitato. Bollati lo trovò scarso. Però piacque a Einaudi e non so se in qualche modo c’entrasse anche quel romanzo che avevo spedito in casa editrice. Fu così che venni assunto».
Dicevi del tuo lavoro come assicuratore. Perché quella scelta?
«Ti dovrei parlare della mia famiglia. Sono nato a Torino, mio padre importava Chivas, commerciava vermut, liquori e sciroppi. Ma poi gli affari cominciarono ad andare male e per non pesare sul bilancio familiare mi impiegai in una società di assicurazioni. Ho fatto lo studente lavoratore, laureandomi in scienze politiche.
L’Einaudi fu un’occasione imprevista».
Come fu l’impatto?
«Nella primavera di quell’anno, il 1963, a poche settimane l’uno dall’altro uscirono La tregua di Primo Levi, La cognizione del dolore di Gadda, Le memorie di Adrianodella Yourcenar, Lo scialle andaluso della Morante, Il consiglio d’Egitto di Sciascia, Lessico famigliare della Ginzburg, che quell’anno vinse il premio Strega. Fu una primavera pazzesca per i romanzi che pubblicammo. E poi, un paio di settimane dopo la mia assunzione vidi qualcosa che mi turbò e commosse».
Cosa vedesti?
«Nella stanza dove lavoravo, e che era stata di Pavese, a un tratto entrò Italo Calvino. Piangeva perché il suo amico Beppe Fenoglio stava morendo. Era appena tornato dalle Molinette dove lo scrittore era ricoverato per un cancro ai polmoni. Questo è il mio primo ricordo, legato a due provinciali che avevano guardato con talento fuori dal loro piccolo mondo».
Pavese tu non l’hai conosciuto perché si suicidò nel 1950. Che vuoto aveva lasciato nella casa editrice?
«Più che un vuoto direi che la sua presenza ancora incombeva. Lui aveva impostato la casa editrice negli anni della guerra, disegnato le collane, dettato le norme redazionali. La sua impronta era incancellabile. C’erano le persone che lo avevano conosciuto, a cominciare da Natalia Ginzburg che lo descrisse come un uomo di pochissime parole, che mangiava poco e non dormiva mai. Ora che mi ci fai pensare, il solo che si è sempre rifiutato di parlare di Pavese fu Giulio Einaudi».
Perché un tale riserbo?
«C’era come un risentimento mai del tutto estinto al quale fece un accenno solo alla fine».
Risentimento dovuto a cosa?
«Credo dovuto principalmente ad alcune scelte culturali. Pavese era un apolitico radicale e pensa al fastidio con cui era vissuta la “collana viola” che aveva ideato e nella quale confluiva il meglio dell’irrazionalismo europeo. Per una casa editrice incontestabilmente antifascista, quella roba era un vulnus. Come era altrettanto sconcertante il suo Diario attraversato da dubbi e giudizi impietosi tanto verso il fascismo quanto nei riguardi di un certo modo di praticare l’antifascismo».
Che fondamento ha la storia che prima di suicidarsi avrebbe scritto sui muri della casa editrice frasi piuttosto risentite verso Einaudi?
«Non c’è nessuna prova di questo, propenderei per la leggenda. È vero però il grande disagio di Pavese in casa editrice. A un certo punto credo si sentisse tagliato fuori dalle scelte importanti».
Perché?
«Le sue frequentazioni culturali con il primitivo, il mitologico, il religioso, con quel mondo arcaico fatto di sangue e di rito, erano mal viste. Soffriva molto dell’isolamento in cui era finito. Quando l’editore si incapricciò di Elio Vittorini che era l’esatto opposto – tanto uno era scontroso, ruvido, avaro di parole, quanto l’altro si mostrava estroverso, piacione, brillante e politicamente in linea – in Pavese si aggravò la sofferenza».
Si è sempre parlato poco degli scontri e delle inimicizie in casa editrice. Il caso Pavese-Vittorini è uno.
«A cosa ti riferisci di altro?».
Penso alle tensioni tra Einaudi e Bollati, a certi giudizi non proprio favorevoli di Natalia Ginzburg verso il suo editore, all’uscita di Luciano Foà che fonda l’Adelphi.
«Ti fermo. Che ci potessero essere delle tensioni è perfino ovvio. Che ci fossero delle inimicizie non lo so, se c’erano non le riscontravi immediatamente, erano molto sotterranee».
Ma i due Giulii non si amavano.
«Erano agli antipodi: uno mondano, capriccioso, facile alla noia, con un fiuto straordinario per i libri ma anche lettore incostante e superficiale; l’altro severo, rigoroso, studi importanti alla Normale di Pisa, allievo di Giorgio Pasquali e Delio Cantimori, coltissimo. Era soprannominato “il Maestro”. Ma pur essendo così diversi si compensavano perfettamente. Almeno fino a quando Einaudi pensò che avrebbe potuto fare senza di lui e senza quasi tutta la redazione».
A che periodo risale?
«La primavera del 1978. Già da qualche tempo Einaudi aveva cambiato stile di vita. Stava poco a Torino e più spesso a Milano e a Roma. Frequentava gente del cinema e altri giri intellettuali. Era come se si fosse disamorato del suo vecchio ambiente».
Che cosa non gli piaceva?
«C’era stato il successo clamoroso della Storia d’Italia e questo aveva trasmesso ad Einaudi la sensazione di essere un personaggio invincibile, che poteva fare a meno del gruppo. La spaccatura si rese inevitabile. Uscì per primo Guido Davico Bonino, poi Nico Orengo, Alfredo Salsano, io e alla fine se ne andò Giulio Bollati».
Come hai vissuto lo strappo?
«Malissimo, era come aver lasciato i campi elisi. Approdai in Boringhieri, dove c’erano Gian Arturo Ferrari e Renata Colorni che si occupava di Freud, c’era Tullio Regge, con il quale si poteva tranquillamente parlare di scienza senza sentirsi menomati. Mi sentivo in pace con la mia ignoranza scientifica senza dover simulare niente.
Facevo il segretario generale occupandomi un po’ di tutto. Quei cinque anni passati in Boringhieri sono stati di enorme arricchimento. Poi, per un breve periodo, grazie a Franco Debenedetti, traslocai alle edizioni Comunità. Fu un’esperienza intensa. Infine, quando commissariarono l’Einaudi e chiamarono Giulio Bollati che era al Saggiatore, Giulio chiamò me. Nell’ottobre del 1984 tornai in Einaudi come direttore editoriale. Furono anni difficili. C’era stata una crisi finanziaria devastante. Ma salvammo la baracca».
Il rapporto con Einaudi?
«Si ricucì. Una personalità così spiccata non si poteva, nonostante tutto, non amare».
Otre a occuparti dell’avventura einaudiana hai scritto libri su Napoleone, San Francesco, Salgari, Barbablù. Molto pop.
«Avendo vissuto una vita sedentaria e libresca mi hanno sempre incuriosito personaggi estremi o che hanno sognato l’estremo. Che siano nella fantasia popolare lo considero un bene e non un limite».
È quello che avresti voluto essere?
«Se intendi estremo no, non è nel mio carattere. Preferisco aggiustare le cose che romperle».
Sei anche malinconico, almeno è ciò che traspare in questo Album di ritratti.
«È un sentimento che cerco di combattere, ma è dura. Il confronto che di solito stabiliamo con il presente è talmente schiacciante da costringerci a distorcere il passato rendendolo attraente e bello, più di quanto non sia stato. Grazie alla nostra memoria, che è sempre molto pietosa, rimuoviamo le asperità e le contraddizioni che abbiamo vissuto e subìto. Fatalmente tendiamo all’abbellimento cosmetico di ciò che è stato. Ma non credo sia questo il caso. Mi sembra evidente che la qualità degli uomini sia andata decadendo. Lo vediamo in molti campi, dalla cultura alla politica alla società. Persone dotate di una visione e di un progetto ce ne sono sempre meno e a un mondo sempre più complesso corrispondono individui privi dei necessari strumenti culturali».
Vuoi dire che quegli uomini – Bobbio, Calvino, Mila, Foa, Ceronetti, Manganelli e altri – sono irripetibili?
«Sono il frutto di una stagione straordinaria. A volte mi dico: come faccio a non essere malinconico. Ho perso tantissimi amici, ma poi so di non averli persi davvero. A volte ancora gli parlo, cerco di immaginare o capire cosa avrebbero fatto loro al mio posto. Non sono scomparsi, restano presenze vive. E mi accorgo che la tristezza non viene da loro ma dal tempo presente. Viviamo non solo una crisi geopolitica, climatica, energetica, viviamo una crisi del linguaggio. C’è una caduta verticale del senso di responsabilità della parola, usata oggi in maniera generica, fraudolenta e violenta. Fu proprio Calvino, nelle Lezioni americane, a denunciare la grave malattia che aveva colpito il linguaggio: una peste che si è diffusa ovunque. Il guaio è che non hanno ancora inventato il vaccino per debellarla».