Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  ottobre 29 Sabato calendario

Intervista ai fratelli Howard

Due genitori partiti dal Middle West verso Los Angeles due figli diventati attori quand’erano ancora bambini che oggi ricordano in un libro la loro famiglia felice e una carriera vissuta come una partita di basket Ron e suo fratello.
Per il pubblico italiano l’Howard di riferimento è l’ex bimbo prodigio di Una fidanzata per papà e Happy Days, il regista da Oscar (A beautiful mind) e di tanti film colossali, ultimo il catastrofista Tredici vite. Ma negli Stati Uniti gli Howard sono un duo, Ron e Clint, formidabile caratterista di film e serie tv, da Bonanza a Star Trek alla saga di Austin Power. Firmano insieme The Boys – Due vite, un’autobiografia, edito da Baldini+Castoldi. In copertina il nome di Ron, per posizione e grafica, sovrasta quello di Clint: è il maggiore (68 anni contro 63) non solo in senso anagrafico. Il libro ripercorre la storia della famiglia Howard tra gli anni 60 e 70, l’infanzia da baby attori di Ron e Clint. I genitori Rance e Jean Howard dall’Oklahoma rurale si spostarono in California per fare gli attori, rimodularono il sogno facendosi mentori e manager dei figli.
Malgrado certi passaggi difficili – Ron bullizzato a scuola e schiacciato da genitori iperprotettivi, Clint adolescente ribelle che nella crisi di carriera abusa di stupefacenti – oggi sembrano due uomini realizzati e sintonici, fianco a fianco in due video, anche se divisi da tremila chilometri: i cappellini da baseball, le camicie a quadri, salotti e cucine sullo sfondo in perfetto stile americano. Hanno una gran voglia di raccontarsi.
Perché questo libro e perché ora?
Clint: «Ron e io siamo vicini, ci amiamo, condividiamo l’esperienzacomune di aver attraversato lo showbusiness iniziando piccolissimi. Non abbiamo mai creduto seriamente di scrivere un libro fino a quando è morto nostro padre, Rance, uomo dolcissimo. Abbiamo pensato che un libro fosse una grande occasione per cristallizzare il ricordo suo e di mamma. Sono fiero del risultato e felice averlo fatto con mio fratello».
Ron: «Eravamo a casa di papà, mettevamo via le sue cose, il cappello da cowboy, gli oggett i che amava. Ho detto a Clint che potevamo ricordare i genitori ma anche condividere con il pubblico il nostro viaggio di ragazzini cresciuti nel business in un’epoca irripetibile».
Com’è stato il rapporto tra voi?
Ron: «Da bimbo anelavo un fratellino con cui giocare ed ero eccitatissimo quando Clint è arrivato. Negli anni è stato gratificante, a volte complicato. Succede in tutte le famiglie, ci sono momenti emotivamente difficili. Mio padre mi ha detto di non dare mai per scontato il nostro legame, forse perché lui era legato alla sorella ma estraneo al fratello. Clint e io siamo diversi ma navighiamo nella stessa industriae stiamo bene insieme. I nostri sarebbero felici del libro».
Com’erano?
Ron: «Li ho sempre percepiti come una sorta di immigrati. Venivano da una cittadina del Middle West, la differenza culturale rispetto a New York o Los Angeles era ancora più estrema rispetto a oggi. Un viaggio infinito l’arrivo a New York e poi a Los Angeles, in auto. E il coraggio di cambiare il corso della storia della nostra famiglia».
Clint: «È stata una fortuna essere figlio loro, ma anche avere Ron: da regista è entrato nella storia del cinema, ma come fratello maggiore è ancora meglio. I nostri genitori come alternativa allo showbusiness volevano farci fare sport e Ro n è stato il mio insegnante e tifoso. A 15 anni divenne allenatore della nostra squadra di basket di quartiere, la stagione più bella della mia vita».
Ron: «Era come quel film, Che botte se incontri gli orsi,un gruppo di ragazzini, alcuni atletici altri no, ma tutti amici. Dentro di me sapevo che volevo fare il regista, insegnare loro a giocare insieme era una sorta di strategia per imparare a dirigere e coordinare gli altri».
Ron, mai sentito la responsabilità, e il peso, di essere il maggiore?
Ron: «Sì, ma eravamo così diversi che ho sempre ammirato la personalità di Clint, anche se aveva cinque anni di meno. Era bravo con le persone, atletico, aveva una band. Anche se ero il più grande un po’ lo invidiavo e l’ammiravo. È sempre stato a suo agio nella vita. Io solo in due luoghi: sul set e a casa con la mia famiglia».
Clint: «In più, avendo 5 anni di differenza, nel lavoro abbiamo sempre occupato spazi diversi, mai stata rivalità. Fin da ragazzino Ron lavorava a tempo pieno alThe Andy Griffith Show, studiava a casa, io ho fatto una vita scolastica normale».
Un’avventura che avete vissuto insieme?
Clint: «Il set diWyoming, terra selvaggia. Girammo a Jackson Hole, fu speciale. Fu l’estate della strage di Charles Manson, io avevo 10 anni e non capivo, Ron sì».
Ron: «Fu scioccante, molti della troupe che gestivano i cavalli venivano da Hollywood e avevano girato allo Spahn Ranch. Jackson Hole era una cittadina molto diversa dal posto ricco di oggi. Ricordo la sera quelli della troupe, gente tosta, che tornavano da una notte di bevute con nasi rotti e mani spellate perché se le erano date con i cowboy locali. Unassaggio dell’old west che si raccontava nel film».
Cosa pensa di “C’era una volta a Hollywood”?
Ron: «L’ho amato, è lo sguardo di Tarantino sulla Storia. Ma è stato interessante ritrovarmi a parlare con lui di show in cui io e Clint avevamo lavorato, anche quelli sconosciuti e dimenticati che Quentin racconta nel film. Per me è stata una esperienza nostalgica, ne abbiamo parlato parecchio».
Com’è cambiato il business rispetto ad allora?
Clint: «Negli anni 60 e 70 tutto stava cambiando, c’era l’impatto della tv.
Era un mondo diverso, non avevamo cellulare, non c’era la rete».
Ron: «I nostri genitori avevano creato per noi una doppia vita, ci insegnavano a essere professionali ma anche a restare bambini. E ci spiegavano tutto. Spesso lasciavano decidere a noi, a volte no: ricordo quando mi proposero di fare il modello da Macy, erano tantissimi soldi ma papà mi disse che non era la cosa giusta: “Quando non reciti voglio che viva la tua vita, girare come modello per il mondo non ti insegnerà nulla di utile».
Cosa avete imparato realizzando questo libro?
Ron: «Ad apprezzare alcune persone che mi hanno formato, Andy Griffith, Henry Fonda, Henry Winkler.
L’esperienza diHappy Days è stata importante, ha rappresentato la fine della mia infanzia e l’ingresso nell’età adulta. Sono diventato regista a 23 anni e ho capito quanto Henry sia stato importante in quegli anni. Non avevo realizzato fino in fondo quantomi avesse sostenuto, nutrito, aiutato.
Mentre scrivevo mi sono ritrovato a chiamarlo per dirgli: ho capito solo ora quanto tu sia stato importante per me».
Clint: «Io voglio sottolineare quanto sia stata importante la figura di nostra madre. Era speciale e come tutti i figli noi l’abbiamo sempre data troppo per scontata. Il mio unico rimpianto nella vita è di non averglielo detto abbastanza».
Ron: «E c’è un’altra cosa. L’Italia è il primo Paese non anglosassone in cui esce il libro. Sono emozionato perché mi sono sempre sentito a mio agio nella vostra cultura, e compreso dagli spettatori italiani, quando li incontro a New York mi fermano, mi abbracciano. Spero che il libro vi piaccia, si chiama The boys perché così ci chiamavano mamma e papà.
C’è dentro un viaggio attraverso Hollywood, ma parla soprattutto di una famiglia, nella quale spero possiate riconoscervi».