Robinson, 29 ottobre 2022
Quanto ha barato, Guitry?
In una recente puntata del suo programma su Radio24 (Storie di rinascita, già Linee d’Ombra) Matteo Caccia ha riportato la vicenda terribile di una famiglia della provincia di Milano che nel 1937 fu falcidiata da un pranzo a base di funghi velenosi. Il racconto veniva fatto dalla nipote di una delle tre superstiti: quest’ultima, allora bambina, si era ostinata a rifiutare il piatto perché i funghi non le piacevano. Fu perciò rimproverata dai famigliari e, a differenza di nove di questi ( e delle galline a cui fu gettato il piatto), in tutta punizione ebbe salva la vita.Erano passati solo tre anni da quando Gaston Gallimard aveva pubblicato – prima a puntate, sulla rivistaMarianne, poi in libro – le Memorie di un baro del commediografo Sacha Guitry. Nella prima pagina si racconta di un altro piatto di funghi velenosi capace di sterminare una famiglia, quella della voce narrante, all’epoca dodicenne. Anche in questo caso si ebbe un rimprovero, che però non fu effetto bensì causa della mancata ingestione dei funghi: il ragazzino aveva rubato monete per comperare biglie, fu scoperto dal padre che per castigo gli negò la pietanza mortalmente appetitosa. La somiglianza e la vicinanza temporale delle due stragi sono certo casuali, così come le circostanze che evitarono ai superstiti la morte per funghi. Del resto è proprio al Caso – «uno dei miei migliori amici» – che Guitry dedicò il suo testo.
La famiglia di Guitry non fu affatto sterminata dall’incidente narrato, poiché malgrado molti passaggi autobiografici, e malgrado il suo titolo, il libro è un romanzo ( eIl romanzo di un baro fu il titolo del film che Guitry ne trasse qualche anno dopo). Per la precisione, è l’unico romanzo firmato dall’autore di 124 ( sic!) commedie brillanti e di una quarantina di libri di varia scrittura, anche regista e attore di un altro buon numero di film.
Quanto ha barato, Guitry? Come tutti i mentitori, anche il baro deve godere di buona e anzi ottima memoria. Il baro infatti non è un mentitore a ruota libera, del genere del fanfarone. È un mentitore tecnico,deve agire con precisione e deve ricordarsi di non mettere in circolazione un secondo asso di cuori se quello primo, unico legittimo del mazzo, era già uscito. In quale senso, allora Sacha Guitry, ha definito “baro” il protagonista del suo romanzo? Costui dice di scrivere le proprie memorie in un bistrot parigino «proprio di fronte a un delizioso palazzetto che avevo fatto costruire nel 1923, e che un otto di quadri mi fece perdere nel ’ 29» ed effettivamente per un capitolo della sua vita egli ammette di essere stato un baro. Ma è un capitolo soltanto, stretto fra una delusione d’amore vissuta da croupier e il reincontro con un commilitone che lo rende giocatore. Sette anni in cui, si vanta, «ho cambiato cinque nazionalità, quattordici nomi e nove facce. Sono stato russo, inglese, tedesco, spagnolo, armeno. Sono stato duca, marchese, colonnello, dottore, industriale, ex ministro. Ho portato le acconciature più varie, barbe di ogni foggia e baffi di tutte le dimensioni». Si mascherava, teneva comportamenti anomali, attirava così le attenzioni degli ispettori, ma poi si eclissava e ricompariva con la sua faccia: barava a quel punto, senza più destare sospetti, con le sue vere sembianze.
Il libro è rocambolesco e assai divertente e dalla strage dell’avvelenamento sino al paradossale elogio del gioco dell’ultimo capitolo non perde mai il ritmo e l’arguta sapienza di scrittura. Il motto della voce narrante è «Essere ricchi non è avere soldi: è spenderli. I soldi hanno valore solo quando vi escono dalle tasche». Infatti trova giusto che la legge punisca gli assegni senza copertura ma vorrebbe che analogo trattamento fosse riservato alla «copertura senza assegno», cioè alla ricchezza che non viene spesa, interrompendo così «la circolazione monetaria». La volontà di poter spendere guida dunque il protagonista, da quando rimane orfano e una truffa gli sottrae il piccolo patrimonio di famiglia sino a quando ascende la scala sociale. I ricchi li viene a conoscere e osservare quando diventa prima chasseur (fattorino di ristorante) e poi groom ( servitore d’hotel). Si appassiona a guadagnarsi mance, compiere servizi discreti, propiziare adulteri e lo racconta con un gusto che deve aver fatto ottima impressione se nel 1937 furono pubblicate le memorie ( reali) di José Roman, uno chasseur di Chez Maxim’s il cui libro fu curato nientemeno che da Raymond Queneau.
L’animazione della Belle Époque e l’affollamento di ristoranti, hotel, casinò sono gli ingredienti principali dello spettacolo della modernità, e Guitry lo inscena con una trama tutta di inganni, delazioni, equivoci.
Alla fine il suo è davvero un romanzo autobiografico: ma non per le vicende che narra, che sono d’invenzione, bensì perché il suo protagonista è un commediografo della vita, vive, infligge e subisce ribaltamenti e colpi di scena. La sventura della sua infanzia è l’imprinting: essere colpevole di furto gli salva la vita, una volta orfano e innocente un furto altrui gli sottrae tutto. Da quel momento viene punito per i suoi meriti e premiato per le colpe. Acquisisce così il modus operandi che suggerisce a chiunque voglia vivere a Parigi: «Bisogna che ti credano sposato se non lo sei, e divorziato se sei sposato. I nomi delle tue amanti devono diventare di dominio pubblico solo quando vi siete lasciati. Abbi l’aria di nascondere qualcosa, affinché nasca una leggenda sul tuo conto». È per questi rovesciamenti che è baro anche nei capitoli in cui non gioca o gioca onestamente.
L’ottima traduzione di Davide Tortorella è la prima, in italiano: Sacha Guitry da noi gode una fama di aforista, le sue commedie non hanno mai avuto vero successo. Essendo il romanzo molto breve, l’edizione Adeplhi lo integra con una corposa postfazione dello scrittore Edgardo Franzosini, un ritratto di Guitry intitolato La leggerezza del megalomane, che non è lettura meno amena del romanzo stesso. Tragedia micologica a parte, la figura del commediografo si sovrappone a quella del suo eroe, accomunate come sono dall’inclinazione all’eccentrica grandeur, l’inesausto dongiovannismo, una certa idea della vita come inganno e la passione per il gioco d’azzardo. Considerato, quest’ultimo, non solo un modo per provare brividi rischiando patrimoni e palazzetti. Ma anche, e meno banalmente, l’unica forma di cura al vizio del gioco stesso. E, più grandiosamente, una testimonianza di fiducia in sé stessi e nel destino. Conclude il suo alter ego: «Il Destino, per me, è il Buon Dio. Sono quindi piuttosto incline a pensare che essere giocatore significa credere in Dio».