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 2022  ottobre 29 Sabato calendario

Intervista a Rudi Guede

 «Io c’ero in quella casa, chi lo nega? C’erano le mie tracce sul luogo del delitto, certo. Mica stavo fermo in un angolo. Ero con Meredith, ci siamo scambiati effusioni, abbiamo avuto un approccio sessuale, sono andato al bagno, ho provato a fermare il sangue che le usciva dal collo... Ovvio che ci fossero le mie tracce in giro. Ma l’ho detto quando credevano che mentissi per evitare la condanna, lo ripeto più che mai adesso che ho finito di pagare il mio conto alla Giustizia: io non ho ucciso Meredith».
Ma lei, Rudy Guede, fu condannato per l’omicidio e per violenza sessuale.
«Il mio libro spiega come si arriva all’accusa di violenza, dubbi e incongruenze comprese. La sostanza è che è stato trovato il mio dna. Dna, non sperma. Come ho sempre detto, stavamo per avere un rapporto sessuale ma ci siamo fermati perché senza preservativi. Eravamo due adulti consenzienti. Ma voglio tornare sull’omicidio».
Dica.
«Nelle mie sentenze c’è scritto: in concorso con Amanda Knox e Raffaele Sollecito, e nessuno dei giudici mi ritiene autore materiale del delitto. Poi loro due vengono assolti. Allora io chiedo: con chi ho concorso? Hanno respinto la revisione del mio processo ma è un controsenso logico. La giustizia italiana dice che ho compiuto un crimine con due persone specifiche ma non come autore materiale; loro escono di scena, quindi il carcere lo sconta una persona che non si capisce di cosa sia colpevole e con chi. Un condannato impossibile. O forse il condannato ideale: il negretto senza famiglia, senza spalle coperte, senza un soldo...».
Però lei è scappato, ha detto cose contraddittorie.
«È vero. La paura ha preso il sopravvento e sono scappato come un vigliacco lasciando Mez forse ancora viva. Di questo non finirò mai di pentirmi. Ma avevo 20 anni e avevo davanti una ragazza agonizzante, l’ho soccorsa ma poi la mente è andata in tilt. Magari sarebbe morta lo stesso ma non aver chiesto aiuto resta la mia grandissima colpa».
Era la sera del 1° novembre 2007. Meredith Kercher, studentessa inglese a Perugia, fu uccisa nella casa che condivideva con Amanda Knox. L’ivoriano Rudy Guede, che oggi ha 35 anni – il solo condannato, appunto, di questa storia – per la prima volta da quando è libero accetta di raccontarsi. Considerati gli sconti di pena, ha riavuto la libertà il 22 novembre dell’anno scorso.
Quindici anni dopo Meredith lei ha di nuovo una vita, un lavoro, una casa...
«Di mattina ho un impiego alla biblioteca del Centro Studi Criminologici di Viterbo, pomeriggio e sera invece faccio il cameriere in una pizzeria. Mi manca solo la tesi per la laurea magistrale al corso di Società e Ambiente, e poi ho una fidanzata, stiamo cercando una casa per andare a vivere insieme».
Ai genitori di Meredith
Ho scritto loro due lettere, ma non mi hanno mai risposto. Amanda
e Raffaele? Voglio dire solo una cosa: conoscono benissimo la verità
Nel suo libro con Pierluigi Vito, «Il beneficio del dubbio», lei mette in fila tutta la sua vita. Riguardo al delitto giura di essere innocente però racconta un comportamento da colpevole.
«La vita di Mez che se ne stava andando fra gli spasmi. Gli asciugamani non bastavano a tamponare il sangue... Ero uscito dal bagno dopo aver sentito un urlo potente malgrado avessi le cuffiette con la musica a palla; nella penombra avevo visto uno sconosciuto con un coltello in mano. “Andiamo via che c’è un negro” aveva detto ad Amanda. All’improvviso il mio cervello è scoppiato. Io non avevo fatto niente ma chi mi avrebbe creduto? E allora, in preda al panico, ho fatto un errore dopo l’altro...Un comportamento criticabile, è vero. Ma questo non fa di me un assassino»
Ha provato a contattare la famiglia di Meredith?
«Scrissi una lettera anni fa rimasta senza risposta. E ho fatto avere a sua madre un altro messaggio di recente per dirle ancora una volta del mio dispiacere per Mez e che le mie mani si sono macchiate di sangue, sì, ma soltanto per soccorrerla. Mi farebbe piacere incontrarla, un giorno».
Che cosa direbbe invece, oggi, a Knox e Sollecito?
«Non ho più voglia di dirgli niente. Ne hanno dette talmente tante loro sul mio conto che per me non ha più senso dargli corda e spazio. Io ho la coscienza a posto anche nei loro confronti. Per tutti questi anni sono stato dentro, sì, ma la mia mente era libera, pulita».
L’hanno mai insultata per strada?
«Soltanto una volta dei tizi mi hanno urlato “pezzo di m...”. Il resto del mondo con cui ho a che fare mi vuole bene».
Il momento più difficile in carcere.
«Un giorno sono rientrato dall’ora d’aria e ho guardato dallo spioncino: il mio compagno di cella si era impiccato. Ho urlato disperato per far aprire la porta; per la seconda volta in vita mia avevo davanti una persona morente... un uomo solo. Lì ho capito che ascoltare le persone è fondamentale. Una salvezza».