Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  ottobre 29 Sabato calendario

Un lunga intervista a Massimo Moratti

Massimo Moratti si confida: «Il rimpianto? Il cardinal Martini mi consigliò di fare il sindaco ma rifiutai».
Massimo Moratti, lei è nato tre settimane dopo la fine della guerra. Qual è il suo primo ricordo?
«Il mattino in cui ho compiuto quattro anni. Sentivo che era una giornata importante. E mio fratello Gian Marco stava andando a scuola con una calza rossa e un’altra blu».
Distratto.
«Allegro. Eravamo una famiglia allegra. Papà lavorava tutto il giorno, ma ogni sera ci ritrovavamo a sentire la radio: Franca Valeri, Alberto Sordi...».
Com’era suo padre Angelo?
«Fantastico. Non ho mai ritrovato, in tutta la mia vita, un uomo al suo livello. E per tutta la mia vita ho tentato di imitarlo; pur sapendo che era inimitabile. Geniale, affascinante, spiritoso, simpatico, umanamente ricchissimo...».
Non solo umanamente.
«Però veniva dalla povertà. Il nonno aveva la farmacia di piazza Fontana a Milano, ma papà andò via di casa a 14 anni: sua mamma era morta, e non voleva vivere con la matrigna, dura come quella delle favole».
In casa eravate cinque figli: oltre a lei e Gian Marco, tre sorelle.
«Anche nostra madre Erminia era una persona allegra. Con papà scherzavano di continuo. Si amavano».
Com’era la Milano degli Anni 50?
«Ancora semidistrutta. Da immaginare. Ma sapevamo che il futuro sarebbe stato migliore del presente».
Cosa votavano i Moratti?
«Dc. Eravamo antifascisti e anticomunisti».
Non c’era proprio nulla che non andasse?
«Qualcosa che non andava c’era. Nordahl».
Il centravanti del Milan?
«Grande, grosso, inarrestabile. Ne avevo una paura fisica: lo vedevo a San Siro e me lo sognavo di notte. Nordahl fu l’uomo nero della mia infanzia».
Così suo padre comprò l’Inter.
«Ma andavamo a vederla già prima: ricordo il 6-5 nel derby del 1949. Allo stadio si litigava, volavano i cappelli».
Qual era il suo calciatore preferito?
«Benito Lorenzi, detto Veleno. Fuori dal campo era dolcissimo: si prendeva cura teneramente dei figli di Valentino Mazzola, Sandro e Ferruccio. Ma in campo diventava tremendo. Provocava il pubblico, prima e dopo aver segnato. Fu Lorenzi a soprannominare Boniperti Marisa, nonostante fossero amici. Boniperti si arrabbiava moltissimo».
Peggio il Milan o la Juve?
«La Juve, senza dubbio».
Il calciatore più forte che abbia mai visto?
«Ve ne dico due: Angelillo e Ronaldo. Due storie parallele. Come Herrera e Mourinho».
Cioè?
«Angelillo era classe pura. Fece un campionato straordinario, da 33 gol. Poi si innamorò perdutamente di una cantante, e si perse. Lo vendemmo e con il ricavato comprammo Luisito Suarez: intelligentissimo».
E Ronaldo?
«Era venuto a trovarmi quando giocava nel Psv, con una fidanzatina olandese... Quando arrivò all’Inter era il calciatore più forte del mondo. Dopo gli infortuni non è più tornato a quel livello».
Si sentì tradito quando andò al Real Madrid, dopo che l’Inter l’aveva aspettato?
«No. Mi ero immedesimato in lui, nel suo dolore. Trovavo giusto che volesse cambiare, dopo aver sofferto tanto».
Herrera come lo trovaste?
«Ce lo segnalò un giornalista della Gazzetta dello Sport, mi pare proprio Franco Mentana, il papà di Enrico. Il Mago e Mourinho avevano molte cose in comune».
Quali?
«Lavoravano e studiavano moltissimo. Sapevano di psicologia e di medicina. Quando arrivò José, il nostro medico disse: finalmente un allenatore che mi aiuta».
Brera racconta che Herrera si aiutava pure con certe pastigliette negli spogliatoi...
«Brera scherzava. Mio padre non l’avrebbe mai permesso. E il Mago aveva molto rispetto per mio padre, quasi soggezione».
Nel 1964 l’Inter vinse la sua prima Coppa dei Campioni.
«Alla prima partecipazione. Battendo 3 a 1 il Real Madrid, che vinceva sempre. Ma Herrera mise Burgnich su Di Stefano e Tagnin su Puskas... Una gioia indescrivibile».
L’anno dopo rivinceste la Coppa a San Siro, gol di Jair.
«Pioveva, la palla passò sotto la pancia del portiere del Benfica. Si vince anche così».
Chi era il suo eroe?
«Mariolino Corso. Mai vista un’ala con tanta classe. Ho amato Recoba perché in lui rivedevo l’imprevedibilità di Corso».
Poi però l’Inter la vendeste.
«E mio padre comprò il Cagliari, quando seppe che stava per cedere Riva alla Juve. Il mattino dopo i dirigenti sardi informarono Agnelli che l’affare non si poteva più fare: il club aveva un nuovo proprietario. L’Avvocato non chiese neppure chi fosse. Aveva capito».
E il Cagliari vinse clamorosamente lo scudetto.
«Con Domenghini che l’Inter aveva ceduto per Boninsegna».
Cosa accadde il 5 maggio 2002, la sconfitta con la Lazio che vi costò lo scudetto?
«I giocatori credettero di aver avuto segnali dai colleghi della Lazio: non si sarebbero impegnati, per non favorire la Roma. Tutte balle. Ne ero convinto già prima del fischio d’inizio, e li avvisai: “Nessuno ci regalerà nulla”. Eppure entrarono in campo con una sicurezza eccessiva. E non sono mai riusciti a prendere in mano la partita. Mi sentivo così responsabile che mi dissi: non lascerò il calcio finché non avrò la rivincita».
In campo c’era un ex come il Cholo Simeone.
«E ci segnò contro. Grande combattente».
Il vostro centravanti era Bobo Vieri.
«Un bastiancontrario, sempre critico verso la dirigenza; ma non un cattivo ragazzo. All’Inter fece tutto quello che poteva fare; eppure non ha vinto nulla».
Poi arrivò Ibra.
«Simpaticissimo. Avevo l’abitudine di consultare i giocatori più importanti per la campagna acquisti, e con Zlatan avevamo un rito. Lui mi diceva: “Di Cambiasso l’anno prossimo potremmo anche fare a meno...”. Io ridevo. Poi andavo da Cambiasso, che mi diceva: “Di Ibra l’anno prossimo potremmo anche fare a meno...”».
Ibra e Cambiasso non si amavano.
«Ma in campo giocavano alla morte l’uno per l’altro».
E nello scontro tra Ibra e Lukaku per chi parteggiava?
«Pareva un match di boxe tra due campioni del mondo. Lukaku è un tesoro... Mi sarei frapposto tra i due, a rischio di prenderne da entrambi».
Mazzola ha raccontato di aver lasciato l’Inter perché lei si consultava con Moggi.
«Non è andata così. È vero che Moggi voleva venire all’Inter, e io non gli ho mai detto esplicitamente che non lo volevo; ma non l’avrei mai preso».
Perché?
«Perché la serie A era manipolata; e noi eravamo le vittime. Doveva vincere la Juve; e se proprio non vinceva la Juve toccava al Milan. Una vergogna: perché la più grande forma di disonestà è imbrogliare sui sentimenti della gente».
All’Inter comandava Facchetti.
«Un uomo splendido. Una volta gli dissi: “Giacinto, possibile che non si trovi un arbitro, uno solo, disposto a dare una mano a noi, anziché a loro?”. Mi rispose: “Non può chiedere a me una cosa del genere”».
Alla Juve tolsero due scudetti, e uno lo assegnarono a lei. Lo rivendica?
«Assolutamente sì. So che gli juventini si arrabbiano; e questo mi induce a rivendicarlo con maggiore convinzione. Quello scudetto era il risarcimento minimo per i furti che abbiamo subìto. Ci spetterebbe molto di più».
Poi arrivarono gli scudetti di Mancini e di Mourinho. Come scelse Mou?
«Ascoltando una sua intervista tv, tra una semifinale e l’altra della Champions 2004. Il suo Porto aveva pareggiato con il Deportivo La Coruna, il ritorno si annunciava molto difficile. E lui disse: “Ma quale Deportivo, io penso già alla finale”. La sua spavalderia mi piacque moltissimo».
E fu il triplete: campionato, Coppa Italia, Champions.
«Missione compiuta. Ero fiero che la stessa famiglia avesse rivinto la Coppa quasi mezzo secolo dopo. Per la prima volta mi sono sentito degno di mio padre; anche se lui resta inarrivabile. Ancora oggi mi capita di trovare persone che mi parlano di lui, che gli devono qualcosa».
Quali persone?
«Vado a Firenze da Giorgio Pinchiorri, tre stelle Michelin, e non mi fa pagare. Penso: sarà interista. Torno con Renzi sindaco, e non mi fa pagare. Penso: sarà amico di Renzi. Poi torno da solo, e di nuovo non vuol farmi pagare. Stavolta insisto: voglio il conto. E Pinchiorri mi rivela che lo fa per mio padre. Tanto tempo fa gli aveva dato un consiglio che gli aveva cambiato la vita».
Quanti soldi le è costata l’Inter in tutti questi anni?
«Questo non me lo potete chiedere. Non lo so, e non ve lo direi. Il calcio non è business; è passione. E le passioni non hanno prezzo».
Ora l’Inter è cinese, forse ancora per poco.
«Gli Zhang, sia il padre sia il figlio, mi sono sempre parsi in buona fede. All’inizio mi chiedevano di parlare ai giocatori, di motivarli. Ma oggi reggere a lungo nel calcio è impossibile. Ogni anno le perdite raddoppiano o quasi: 50 milioni, 100 milioni, 150 milioni...».
Come finirà?
«Forse arriverà un fondo americano. Ma attenti alla speculazione. Il calcio non è costruito per fare soldi. Gli americani vorrebbero trasformarlo in spettacolo. Show-business. Ma non so se in Italia sarà mai possibile».
Chi vincerà il campionato?
«Potrebbe davvero essere l’anno del Napoli. Anche il Milan fa paura. L’Inter ha una struttura forte; ma poi sul più bello si smarrisce».
Cosa pensa di Berlusconi?
«Lo considero un amico. Come imprenditore lo stimo molto».
E come politico?
«Non vorrei perdere la sua amicizia».
È vero che lei ha rifiutato di candidarsi a sindaco di Milano?
«Sì, per tre volte. E forse ho sbagliato. È un po’ un rimpianto: mi sarebbe piaciuto».
Quando accadde la prima volta?
«Nel 1993, quando poi vinse la Lega. Andai a chiedere consiglio al milanese che stimavo di più».
Chi?
«Il cardinal Martini. Una persona stupenda. Mi sconsigliò».
E l’ultima volta?
«Leader del Pd era Veltroni. Quella volta il cardinal Martini mi disse di accettare. Eppure rinunciai, anche se mi sentii in colpa».
Perché rinunciò?
«Pensai ai miei cinque figli. Avrebbero preferito un papà sindaco, o un papà che insegnava loro un mestiere, che lasciava loro un’attività? E poi non mi andava di sfruttare la popolarità conquistata grazie all’Inter».
Come ha conosciuto sua moglie Milly?
«Alla Capannina. Era bellissima. La invitai a ballare. Era il 1966, aveva vent’anni ma ne dimostrava meno. Ci siamo sposati nel ’71, abbiamo sempre condiviso tutto. Tranne una cosa».
Quale?
«Quando comprai l’Inter non le dissi nulla. Lei lo apprese dalla tv. Diedi ordine di bloccare gli ascensori: temevo salisse in sede per fermarmi. Poi andai a casa. Non trovai nessuno. Brindai con la cameriera».
Sua moglie è una donna di centrosinistra, sua cognata Letizia Moratti è una donna di centrodestra. Com’è la convivenza?
«Serena. Si stimano e si vogliono bene. Che ci sia confidenza, questo no».
Come trova Milano oggi?
«Sempre la miglior città al mondo per lavorare».
Perché?
«Perché lavorano tutti. E perché i milanesi hanno il senso della partecipazione. Come quando ripulirono in un pomeriggio la città imbrattata dai black-bloc».
Sala come lavora?
«Bene. Ma non deve sottovalutare l’insicurezza. L’inquinamento. E la speculazione edilizia».
Non le piacciono i nuovi grattacieli?
«Sono belli e, a dispetto dei timori, sono pieni. Attenzione però a non fare le cose tanto per farle. Non dobbiamo solo pensare agli sceicchi, ma ai giovani milanesi che non riescono a comprare casa, a fare famiglia, a costruirsi quel futuro che a noi sembrava meraviglioso».
E il nuovo stadio?
«Non mi convince. Buttare giù San Siro sarebbe un delitto. Dice: così i club guadagnano 30 milioni l’anno. Ma cosa sono 30 milioni, rispetto alla storia? Vedrete che alla fine nessuno oserà demolire il nostro tempio».