Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  ottobre 29 Sabato calendario

Il Luchino di Testori

Michele Masneri per il foglio

Parlare con Giovanni Agosti nella sua casa milanese ombrosa e labirintica di libri, cataloghi, tappezzerie e animaletti e corridoi rossi è un’esperienza 3D, è un metaverso culturale (al momento è più ordinata, una parte dei materiali sono in prestito in Triennale nella mostra che si chiama appunto “il Corridoio rosso”). Anche l’ultimo libro dello storico dell’arte è labirintico e muscoso, come insegna Charles Swann del resto non si possono amare che gli oggetti che rimandano ad altri oggetti, che hanno una storia: dunque ecco questo libro che è un libro su un libro, nello specifico un libro “perduto”, un vecchio testo che si credeva perso per sempre di Giovanni Testori su Luchino Visconti. Si intitola solo “Luchino”, esce ora in versione fiammeggiante rossa, con Visconti a tu per tu con un pastore tedesco (“foto presa alla Colombaia a Ischia, e dedicata a Goliarda Sapienza”, spiega il professore, prazzesco). In libreria a giorni per Feltrinelli, non è una retrospettiva ma una macchina-libro per “capire quanto Visconti sia stato importante per chi gli è succeduto”, mi dice Agosti mentre guardiamo uno spezzone del “Lavoro”, episodio di “Boccaccio ‘70”, il suo Visconti preferito, dove un giovane Tomas Milian fa un milanese snob con valigeria Louis Vuitton (“le stesse iniziali”) con la moglie Romy Schneider tutta in Chanel (“il rapporto con Coco Chanel era già del padre, Giuseppe Visconti, che l’aveva conosciuta a Parigi”). E la figura del padre sembra uno dei punti centrali di questo libro a strati e cerchi concentrici – c’è un’introduzione, delle note, poi delle note alle note, Agosti realizza la fantasia gaddiana-arbasiniana di un libro solo di note. Il testo originario, misterioso, smilzo, qui è restaurato e rimpolpato, prima infarcito di immagini, che Agosti ha stanato tra i più prestigiosi archivi gentilizi e nei peggiori rotocalchi presi chissà da quali bancarelle, poi stretto tra apparati, farcito di indici e rimandi, vien fuori insomma un’opera che ha ben poco in comune con l’originale “panegirico”, che Testori scrisse sul conte-regista. Testo fotocopiato, perso, ritrovato, donato all’antiquario Dino Franzin, testimonia di un rapporto come si immagina altalenante tra lo scrittore, che sceneggiò opere fondamentali di Visconti come “Rocco e i suoi fratelli”, poi però il rapporto si perse. Pare, per dramma di sentimenti offesi. Il conte-regista aveva scritturato il grande amore di Testori, il francese Alain Toubas, per fare da comparsa in “Ludwig”, una piccola scena, una scenina, ma quello sbaglia accento, dice “the king was hill”, “hill, con la acca”, invece che “ill”, malato, e il conte-regista alla terza volta fa una cosa molto viscontiana, lo caccia, prende un elettricista e gli dà la parte a lui. Fine, poi ci saranno odii feroci e dei versetti satanici di Testori contro il conte, poi una riappacificazione, ma intanto questa è la storia del testo basico e primario, ma tutto attorno indagini, rimandi, investigazioni che fanno la gioia del lettore che aprirà questo volumone come compendio o i-ching soprattutto del gusto italiano otto-novecentesco, dove compiere incursioni (Proust-D’Annunzio-liberty, proprio con lo stesso metodo con cui Visconti indagava le sue ossessioni). Ottimo anche come bolla in cui farsi risucchiare di questi tempi grami. Si diceva del padre: questo don Giuseppe Visconti, chiaramente personaggio centrale nella storia. Gentiluomo di corte della regina Elena, di cui è molto amico e a cui sistema la casa, villa Savoia, a Roma. Lui prende casa di fronte, in quella via Salaria 366 dove abiterà poi Luchino, e seguendo la strada del padre si capisce che il figlio non avrebbe potuto essere altro. Il padre crea anzi ricrea il villaggio di Grazzano, poi divenuto Grazzano Visconti dal 1914 grazie al Re amico, ennesima variazione sul tema company town di cui la Lombardia è generosissima, da Zingonia Zingone a Crespi d’Adda a Milano3, ma qui in versione neorinascimentale, con torrette, teatri, copie di maestà di Simone Martini, affreschi con Luchino piccolo, parate in costume (contadine e contessine insieme) e il tutto manutenuto da una squadra di artigiani in servizio permanente effettivo che don Giuseppe tira su. Oggi il paese, sogno urbanistico del conte immaginifico, è rinato al turismo con eventi dedicati a Harry Potter, vabbè. Ma a Grazzano, impossibile stabilire cosa è vero e cosa è falso, tra affreschi “veri” e novecenteschi, e rimandi infiniti con statue che rimandano ad altre statue, e terracotte dei Della Robbia e grotte di Lourdes, e lì Agosti è andato come detective, per la sua indagine, tra attribuzioni mai viste. Don Giuseppe è un estremo conoscitore delle arti, e le mischia volentieri. Ma progetta anche minuziosamente il suo proprio funerale, nella chiesa di Grazzano, tra damaschi rossi e nani mascherati. Don Giuseppe che nel palazzo di via Cerva, a Milano, organizza celebri balli in maschera, di rigorosissima ricostruzione storica. “Non ti facevano entrare se non eri perfettamente in costume 1859”, dice Agosti, mentre guardiamo le foto del celebre ballo del 9 giugno 1909, dedicato appunto al cinquantenario della Seconda guerra di indipendenza, e lì i piccoli Visconti bambini che non potevano partecipare si svegliavano all’alba e in pigiama andavano a vedere, in una loggetta dedicata, il ballo che lentamente si stava concludendo (“quel senso di disfacimento che ho cercato di rendere nell’ultima fase del ballo era lo stesso che avvertivo da bambino nel salone di via Cerva, dove ormai poche coppie si muovevano ancora, e le voci degli altri si facevano sempre più stanche e intermittenti”, dirà poi Luchino). E vedendo quelle foto, si capisce che la festa finale del “Gattopardo” non solo viene da lì ma a confronto è davvero poca cosa, i saloni milanesi son ben più imponenti di quelli siciliani. Di quel ballo, Visconti ne aveva montata una versione di quattro ore (!). E Togliatti, improbabile best friend e supporter e critico, disse che assolutamente non andava tagliato. Il comunismo di Visconti è tema dei più divisivi. “Il comunista più ricco d’Italia”, titola un vecchio “Oggi”. Però Visconti era sinceramente comunista. Da quanto, assistente di Renoir a Parigi, aveva conosciuto il Front Populaire. E poi la resistenza, “il momento più intenso della mia vita”. Ma come conciliare il lusso, gli splendori, la vita inimitabile, con la tessera del Pci? “Ma lui era onestamente convinto che il suo mondo fosse finito, e che era giusto così. Un mondo più giusto sarebbe nato in futuro”, dice Agosti. “Io voto contro i miei privilegi. Se fossi santo, se fossi San Francesco, mi priverei di tutto. Ma non sono così eroico”, disse Visconti. Insomma ci tiene che il suo mondo, tirato a lucido, finisca con stile, in attesa di una ghigliottina che però non arriverà mai. Intanto i set si confondono con le case: a partire da villa Erba, a Cernobbio, quella poi trasformata in hotel dove si svolgono i fondamentali forum Ambrosetti. E lì, la prosapia materna, industriali del farmaco, ospita i piccoli Visconti che si denudano e ricoprono di talco o farina, immobili, mentre passano i battelli, per sembrare statue, ai turisti. Salvo poi scattare in acqua, ignudi. La mamma si separa presto, mentre don Giuseppe segue i suoi fantasmi e le sue passioni. Proust, le piante, con cui parla, la teosofia, l’Opera, i blasoni, la beneficenza industriosa, la presidenza dell’Inter (!), un ballo giapponese organizzato per la Regina Elena a Roma, l’inesausta decorazione dei suoi palazzi, in un vortice di vero che sembra finto e viceversa che passerà intatto al figlio (che fortuna, però, nascere talentuoso. Che rischi ha corso, il piccolo Luchino, di diventare uno sfessato maniaco come se ne conoscono tanti che parlano solo di mammà e dell’antica collezione usucapita). E che cinema, che teatro, e le case di famiglia non a caso saranno costruite, decorate, disegnate, più che da architetti, da scenografi. A Grazzano ci pensa un allievo di Camillo Boito (autore di “Senso”); per la Salaria (“più che una casa di Roma sembra una casa del retroterra milanese o comasco”, per Testori), c’è Gino Franzi, che aveva sistemato anche Cernobbio e che farà “Ossessione”; il sardo Giorgio Pes arredatore del “Gattopardo” lo è anche della formidabile Colombaia a Ischia, delle magioni di Zeffirelli e poi di Berlusconi (ci pensò lui a palazzo Grazioli). Oggetti e opere d’arte passano pure dalla casa del regista ai set, come nel “Lavoro”, con la collezione di sfere prese dalla Salaria, supervisionate da Pes e da Domietta del Drago (non accreditata). Nel libro, altri movimenti centrifughi. Ecco “l’anglologo”, il professor Mario Praz immortalato in “Gruppo di famiglia in un interno”, rispecchiamento di Visconti e storia di un compunto studioso che vede la sua pace gentilizia scombussolata dall’arrivo di condòmini arrembanti e rumorosi, ma a Praz non piacque (così mi raccontò Alvar Gonzalez-Palacios che accompagnò il prof al cinema). L’anglologo però abitava al primo piano di palazzo Primoli, la “Casa della vita”, e sullo stesso pianerottolo poi arrivò effettivamente un vicino fracassone, Mario Schifano, che l’anglologo con i noti superpoteri previde in anticipo (dedica di Praz a Schifano: “Al mio vicino di casa, lontano di idee”). A quel punto ci furono due Rolls-Royce fatali in giro per Roma. Quella di Schifano, che la banda della Magliana gli ha fornito, rubandola a Fiumicino dove era sequestrata in quanto intestata a Papa Doc, dittatore di Haiti, e quella di Helmut Berger, il belloccione compagno di Luchino, che ci finirà nel Tevere. Mentre Leonor Fini fa un ritratto a Luchino spigoloso, Luchino fa un ritratto a Helmut, a cui lo sfortunato attore poi anni dopo aggiungerà una lacrimuccia, “quasi come un Vezzoli in anticipo sui tempi”. Ci sono le risse con Arbasino che da piccolo fan diventa “hater” di Luchino e gliene dice di ogni: “infame” il Gattopardo, in Visconti “la passamaneria ha la meglio sulla poesia”, e il regista addolorato e imbufalito risponde: “Arbasino alla fine è un provinciale di Voghera malato di esterofilia. Per lui qualsiasi cialtronata vista nel West End gli sembra caviale”, ci sono gialli letterari (forse che tutta la storia di “Senso”, di quell’amore disperato e risorgimentale tra la contessa Serpieri e l’orrendo tenente Franz Mahler che deruba i soldi dei patrioti fosse una trasposizione dell’amore del comandante partigiano Pietro Secchia poi numero due del Partito comunista perdutamente innamorato del Giulio Seniga, viceresponsabile della vigilanza del Pci, che scapperà con la cassa del partito?). E sempre a proposito del Partito, ecco un Burt Lancaster molto tiepido all’inizio con tutta l’operazione “Gattopardo” ma che poi adorerà tutto, da Rina Morelli, caratterista che Visconti trasforma nella “sua” attrice, che fa una principessa di salina tutta “Gesummaria”, e sospiri, e Lancaster non fa che dire “gorgeous-marvelous” dopo ogni ciak; fino ai quadri di Guttuso che Visconti e l’attore hollywoodiano si scambiano in occasione del loro duplice compleanno, che cade il 2 novembre (ma Visconti compare anche nel quadro “I funerali di Togliatti” del pittore siciliano, il colossale tre metri per tre in cui sono rappresentati Angela Davis, Neruda, Gramsci). Lancaster finirà poi a fare “Gruppo di famiglia” gratis, così come tutti gli altri attori, perché non ci sono soldi, con Visconti non ce ne sono mai abbastanza, ma per il conte questo ed altro. Spendeva poi così tanto, lui? Il vivere inimitabile sulla Salaria (di fronte, la villa Polissena del principe-amico Enrico d’Assia, qualcuno sosteneva che un tunnel le unisse): ma Testori: “Casa Visconti a Roma era piena di ciaffi, l’unico vero quadro glie l’ho dovuto regalare io”. Bagni enormi, enormi televisori in bella vista, tante copie di “Sorrisi e canzoni” a terra, e, secondo Enrico Lucherini, “orrendi soprammobili, regali che gli facevano gli attori, le attrici, i tecnici con cui lavorava, e che rimanevano in vista per una quindicina di giorni e poi sparivano, fin quando il donatore non ricapitava in casa”. In giardino, sei levrieri e due gatti persiani rosa, regalati da Elsa Morante. “Lei è decadente?” gli chiedono in un’intervista. “Sì, la parola mi piace molto. Mi piacerebbe meno essere accusato di futurismo”. Ovviamente intende la parola come la intendeva Walter Binni, non decadenza della poesia ma poesia della decadenza. Ma passa piuttosto il mito del maniaco araldico, del regista scassa-preventivi, che vuole i ciliegi veri per Cechov, “quel matto di Visconti vuole i gioielli veri di Cartier, i rubinetti che buttano acqua vera, vuole vero profumo francese nei flaconi appoggiati sul tavolo di scena”, dice lui, consapevole e divertito. “La leggenda coinvolse anche Strehler. Né io né lui ci demmo molto da fare per smentirla”. E poi gli amori, che seminano talento e angoscia: Helmut Berger, Franco Zeffirelli, Massimo Girotti, Alain Delon (ma Delon ebbe anche un flirt con Testori). Visconti aveva poi la vocazione pedagogica nell’erotismo. “Io non sono vittima del divismo. Io produco divismo”. Nell’amore contrastato con l’attore francese, Visconti come tanti ricorre alla psicanalisi, ma non è che poteva andare da uno qualunque trovato sull’elenco telefonico: finisce da Lacan in persona. Per il resto odia invecchiare (a Strehler: “dopo i Sessanta è una barrba”, con erre molto arrotata lombarda). L’unica cosa che lo fa andare avanti, in definitiva, è il lavoro. “La fatica”. Scrive Testori. “Ecco: Visconti è uno di quegli artisti che sanno come l’aspirazione significhi, per prima cosa, mettersi davanti a un tavolo e lavorare”. Lavora sempre, gira il suo ultimo film, “l’Innocente”, la sua incursione in D’Annunzio (ma i diritti del “Piacere” non si poterono ottenere) tutto in sedia a rotelle. Le sue ultime parole pare che siano state, in dialetto milanese: “Basta. Sun stracc”.



***



Alessandro Pierno La Lettura

La prima cosa a colpirti di questo strano oggetto che contiene il librino fin qui inedito che Giovanni Testori volle dedicare all’amico e compagno di avventure Luchino Visconti è l’abnorme sproporzione tra un testo così succinto e il maestoso apparato paratestuale allestitogli intorno da Giovanni Agosti, il curatore. Uno squilibrio che, ben lungi dal risultare ridondante, appare consustanziale al metodo di due maestri dell’accumulazione come Testori e Visconti: gemelli in spirito che della stratificazione, la sinestesia, l’assonanza hanno fatto una ragione di vita. A impressionare è soprattutto il montaggio che, date le circostanze, sarebbe troppo ovvio definire cinematografico. La mia impressione è che Agosti abbia voluto imprimere alla divagazione testoriana – che si credeva perduta per sempre, distrutta dalla furia dell’autore e dal precipitare degli eventi – una struttura sinfonica: se a dettare i movimenti ci pensa la sintassi di Testori, spetta alle acciaccature di Agosti fornire il contrappunto adeguato.
Nella prefazione, Agosti scrive che questo Luchino di Testori è un «monumento eretto da un milanese a un milanese, nel corpo del Novecento, quando su entrambi si addensavano le ombre della mezza età e circolavano su di loro – erano sempre circolate – plurime perplessità». Be’, lasciatemi dire che a far bene i conti di milanese ce n’è anche un terzo: il medesimo Agosti che con i due maestri ha parecchio in comune, e non solo per averli frequentati (da fan prima, da studioso poi) nel corso di una vita intera. La cura maniacale, il tignoso anacronismo, l’ethos inflessibile di Testori e Visconti rivivono, trovando un interprete ideale, in Agosti e nelle sue eclettiche peregrinazioni erudite: una cornucopia di notazioni bio-bibliografiche e un quanto mai impeccabile (a tratti commovente) dossier iconografico. Del resto, non mi pare un caso che qua e là – per osmosi, verrebbe da dire – le dotte chiose di Agosti assumano un tono intimo, spudoratamente autobiografico. È al suo mondo che si rivolge, un mondo che non esiste più.
Il piccolo capolavoro ritrovato
Per prima cosa, com’è giusto che sia, Agosti si chiede perché Testori, dopo aver dedicato un omaggio così bello e generoso a Visconti, decida di disfarsene. Che i due amici di lunga data a un certo punto abbiano smesso di prendersi e frequentarsi è acclarato. Peccato che la natura delle loro incomprensioni non sia mai stata esplicitata, né dall’uno né dall’altro. L’ipotesi avanzata da Agosti chiama in causa moventi non proprio commendevoli: a quanto pare, il mancato utilizzo da parte di Visconti dell’attore Alain Toubas, partner amoroso di Testori. La suscettibilità di quest’ultimo ha fatto il resto. Volendo fornire una giustificazione alla grettezza della disputa, Agosti ricorda che essa si consumò in un periodo di vita assai difficile sia per Testori sia per Visconti: il primo alle prese con un esaurimento nervoso, il secondo, già piegato dalla malattia, a un passo dalla tomba.
Resta il fatto che questo testo esiste, e che, se non altro per il prestigio dell’estensore e per l’iridescente materia e di cui è composto, merita di essere letto, chiosato e valutato. E se permettete, è da qui che vorrei partire.
Come definirlo? Stando a Testori, Luchino è una ricognizione intorno alla poetica di Visconti. Un’indagine compiuta in retrospettiva da chi vanta una visione privilegiata (se Testori aveva collaborato alla stesura di Rocco e i suoi fratelli, Visconti aveva prestato la sua sapienza registica alle più celebri e controverse pièce dell’amico). A me sembra che la definizione di Testori non precisi del tutto i confini della sua indagine. La verità è che Luchino ricorda parecchio le biografie in cui una ventina di anni prima si era specializzato quel geniaccio mestatore d’un Sartre: biografie critiche che si prefiggevano il fine di desumere il senso dell’opera di un grande artista dalla sua vita. Un metodo fieramente avversato dalla critica formalista che tuttavia, occorre ammetterlo, ha offerto un contributo non trascurabile alla comprensione di Charles Baudelaire, Stéphane Mallarmé e Jean Genet.
Le affinità finiscono qui. Non c’è niente di più distante dallo stile sartriano – serrato, marziale, impastato di filosofemi – della prosa di Testori: lirica e lutulenta, in parole povere lombarda. Quella linea ideale che tiene insieme Alessandro Manzoni, Carlo Dossi e Carlo Emilio Gadda naturalmente. Quale altra letteratura, almeno in Italia, ha saputo convogliare necessità estetiche così apparentemente inconciliabili come quelle reclamate dal manierismo, dal barocco e dal realismo?
Che l’intimità amicale sia la marca scelta da Testori appare evidente sin dalle prime battute. Il suo testo si configura quasi come una lettera all’amico in cui, tanto per esser chiari, si sprecano i «Luchino mio». Ma ben oltre l’accento affettuoso, a tratti un tantino querulo e lacrimevole, a colpire è la lucidità con cui Testori prova ad andare alla radice dell’ispirazione viscontiana partendo da premesse tutto sommato frivole: le dimore principesche di Visconti, la zoofilia, il contegno settario e aristocratico.
La frattura
Con piglio sartriano, Testori identifica il cuore della vocazione di Visconti in un evento luttuoso: la morte prematura della madre. «Per Luchino, e non parlo solo per chi voglia tentarne un ritratto, ma per chi intenda affrontare veramente nel profondo il suo mondo poetico, c’è un nome, una persona, un viso, un sangue ed una carne da mettere al centro: questo nome e questo viso sono la madre. Anche perché, direttamente da quel nome, vien giù, dilatandosi come naturale e naturante conseguenza, quell’altro nucleo che è egualmente e forse anche più visibilmente al centro della sua poetica: la famiglia».Testori non ha dubbi: intorno alla morte della madre avvenuta nel 1939 gira l’intero sistema emotivo, valoriale ed estetico viscontiano. Ciò consente al critico di ribaltare un vecchio luogo comune che deturpa la ricezione dell’opera dell’amico: il cliché che vede nelle regie di Visconti (sia teatrali che cinematografiche) un’esibizione di oggetti preziosi che saturano le scene fino all’estenuazione. Per Testori l’horror vacui di Visconti è tutt’al più un sintomo di una patologia endemica: un morbo ereditario che induce chi ne è tormentato a colmare con ogni mezzo il vuoto lasciato nel cuore da una frattura originaria. Non c’è pienezza che non nasconda un vuoto: «Il grado zero si ottiene, è chiaro, eliminando; ma si ottiene anche eccitando una figura, una trama o una situazione a dilatarsi, a inorgoglirsi, a furoreggiare di sé, al punto da occupare tutto lo spazio in cui è destinata a vivere o, se è il caso, a sfagocitare in sé anche quello». Un sofisma, obbietterà qualcuno. Peccato che Testori lo arricchisca di argomenti inoppugnabili: «Credo che certi stati di tensione nientificatrice e silente, in cui pare che non avvenga nulla e invece accade tutto, che furono tra i più memorabili delle sue regie di teatro, vengono giù, come echi, da questo tempo di inerzia e di vuoto, in cui la decisione poteva essere buona, comunque estrema: o gettar la vita o, costi quel che costi, realizzarla; o amare così tanto la propria madre da andarsene con lei (là dove lei si trova) o prendere su di sé anche gli anni che a lei erano stati così crudelmente rapinati dal destino e costruire anche per lei il monumento delle ragioni per cui aveva deciso (o accettato) di farlo apparire; di crearlo».
È qui che il discorso di Testori a parer mio inizia a sbandare. Con l’ingerenza tipica del critico fazioso, eccolo attribuire all’oggetto del suo studio le proprie necessità metafisiche, gli sdilinquimenti religiosi. A fronte di tale precoce nichilismo, azzarda Testori, Visconti ha l’anima abbastanza infantile e aperta da confidare nell’aldilà. «Luchino pensa; o forse, è meglio dire, intravede dilà dal buio, dilà dai fondi delle bare, alcuni strani baluginii, alcune strane speranze che son molto più vere e molto più ectoplasmatiche (e quindi molto più plastiche) dei fuochi che, nelle sere d’estate, errano, come appelli, entro le cinte dei camposanti: povere esalazioni, lucciole e notturne farfalle del nostro continuo marcire». Ribadisco: mi sembra che qui Testori ci parli di sé più del dovuto. Ma non è forse ciò che fa la critica migliore, la sola memorabile?
Un artista decadente?
D’altro canto, ciò consente a Testori di confutare l’ennesimo stereotipo che affligge il Maestro: «È per questa ragione che trovo molto impropria la collocazione della poetica di Luchino dentro i termini del decadentismo». Qui le cose si complicano. Stentiamo a immaginare un cineasta che più di Visconti si è posto nel solco della tradizione decadente. In cosa consiste tale retorica fin de siècle? Semplice, nell’anteporre la trasfigurazione del dettaglio alla definizione del contesto. Le pagine che Testori dedica alle famose case di Visconti (le dimore private, ma anche quelle maniacalmente allestite nei suoi film: dal Gattopardo al Gruppo di famiglia in un interno) dovrebbero fornire una prova inoppugnabile della sua attitudine decadente. Nessun movimento artistico ha conferito altrettanto peso all’arredamento: ciò che assimila un personaggio di finzione come Des Essentes a un intellettuale anomalo e solitario come Mario Praz è l’ambizione di rendere il proprio nido domestico un’opera d’arte in fieri. Difficile negare che Visconti abbia assorbito fino in fondo l’idolatria dei decadenti.
Eppure c’è qualcosa nella perplessità di Testori di cui occorre tenere conto. In che modo il decadente Visconti si smarca dal decadentismo? «Lo so e lo so benissimo»: precisa Testori. «Luchino inclina agli stati incestuosi, pervertiti e invertiti, insomma agli stati morbosi; ma proprio quando vi sembra immerso e quasi messo a mollo come una ranaccia dentro il limo, il suo occhio lucente volge quegli stati verso la definizione storica e morale; insomma, verso il giudizio che li incista e definisce; e che in tale giudizio sia compromessa una parte non breve di sé, della sua storia, della sua famiglia, del suo blasone, sta a significare soprattutto il coraggio con cui l’operazione è condotta».
Per dirla con parole più semplici, Visconti, stando a Testori, non sottovaluta mai il contesto in cui le sue sontuose messinscene hanno luogo. Da realista malgré lui qual è, Visconti non dimentica la centralità della Storia. Esaminando la struttura narrativa di film come Il Gattopardo e La caduta degli dei, è difficile dare torto a Testori. Gli allestimenti principeschi di quei capolavori non vanno liquidati come mere effervescenze esornative. Esse sono appannaggio inevitabile del milieu che Visconti vuole illustrare, e per certi versi esecrare e mettere alla berlina.
La religione del lavoro
A questo punto Testori ha buon gioco nel rivelare la natura più profonda di Visconti che si esprime nel suo stacanovismo (ancora una volta, molto lombardo). Al piacere, alla dissipazione, così essenziali per l’artista decadente, Visconti oppone la religione del lavoro. Come non pensare allora al famoso aforisma di Baudelaire, anche lui decadente sui generis: «Ad ogni minuto noi siamo gravati dall’idea e dalla sensazione del tempo. E non vi sono che due mezzi per scappare a questo incubo, per dimenticarlo: il piacere e il lavoro. Il Piacere ci usa. Il Lavoro ci fortifica. Scegliamo. Più ci serviamo di uno di questi mezzi, più l’altro ci ispira la ripugnanza. Non si può obliare il tempo che servendosene. Tutto non si fa che poco a poco».
Considerando le attitudini, il lignaggio, il patrimonio, Visconti avrebbe potuto tranquillamente lasciarsi andare ai vizi appannaggio della sua casta. Ma come ci ricorda Testori sin dalle prime righe del suo saggio, Luchino ha scelto la via impervia della solitudine creativa, la più alta missione cui un uomo possa consacrarsi. «Dio mio, Luchino», esclama Testori, «tutti questi anni! Tutto questo tempo! Anche tu, come tutti, a cercare di vincerlo edificando, costruendo: film, sceneggiature, regie, messe in scena, attori scovati, attori esaltati, attori come figli, affetti partiti in silenzio con tutte le loro trame così profonde, così giuste e leali, il biondo (anche se magari è brunità o nerezza) del tuo arcangelo, i pensieri, gli affanni, le fatiche, soprattutto le fatiche, anzi, la fatica... Questa ragione prima di vivere; vivere per far fatica; e far fatica per vivere».
Post scriptum
Resta il fatto che questo libro bellissimo sarebbe un po’ meno bello senza l’armatura, insieme solida e scintillante, che Agosti ha voluto costruirgli attorno. Da segnalare il lungo saggio che chiude il volume cui Agosti ha dato un titolo volutamente rapsodico: Una fantasia su temi viscontiani. In esso si dà conto senza soluzione di continuità delle mirabolanti influenze e suggestioni culturali di cui Visconti si è avvalso per irrobustire le spalle della sua musa muliebre. Questo, oltre a ricordarci che un artista è sempre imbevuto di ciò che venera, ci dimostra come non si può fare critica senza allargare a dismisura gli spazi d’indagine. I Fari chiamati in causa da Agosti sono parecchi: da Giacomo Ceruti a Roberto Longhi, da Lionello Venturi a Carlo Cecchi, da Anna Banti a Pier Paolo Pasolini, da Carlo Emilio Gadda a Mario Praz. E non è che una lista sommaria. Troppo facile sarebbe ridurre questa carrellata di nomi, e i fantasmi da essi evocati, ai gusti e all’erudizione del curatore. C’è ben altro.
L’intuizione critica più feconda di Agosti riguarda un nodo cruciale per qualsiasi artista, ma sopratutto per un artista di solida tradizione lombarda. Passando in rassegna le opere d’arte, gli arredi, le decorazioni delle case di Visconti – dal salone da ballo di via Cerva, attraverso i salotti di Cernobbio, fino ai «labirinti di Grazzano» – Agosti, con il piglio dell’impeccabile connoissair qual è, s’interroga sulle commistioni tra vero» e «falso» di cui esse sono il prodotto. È lì, conclude Agosti «in quell’ambiguità di vero e di falso», in questo impasto indissolubile di originale e apocrifo, che si colloca «la cellula generativa della creatività – se non del dolore di vivere – di Visconti».