La Lettura, 29 ottobre 2022
Biografia di William Henry Beveridge
Possibile che un documento come il Rapporto Beveridge, destinato a segnare un secolo e a rimanere una pietra di paragone a ottant’anni dalla pubblicazione nel 1942, abbia avuto una gestazione pressoché casuale e una fama del tutto imprevista? Certamente il suo principale estensore, William Henry Beveridge, era tutto fuorché un outsider. Letteralmente figlio dell’Impero, nato in India da un funzionario dell’amministrazione di sua maestà britannica e da un’influente studiosa di culture orientali, il giovane Beveridge superò rapidamente e con profitto i passaggi obbligati per entrare nei ranghi dell’élite britannica, incluse le lauree in Matematica, Legge e Studi classici a Oxford.
Parallelamente alla professione di avvocato, la frequentazione dei circoli del fabianesimo riformista stimolò il suo interesse per i problemi della disoccupazione e dei sussidi necessari a mitigarla: Beveridge divenne presto un’autorità in materia, al punto che durante la Prima guerra mondiale il governo si avvalse delle sue competenze per gestire la situazione emergenziale determinata dal conflitto nel campo dell’impiego. Al pari di molte brillanti menti della sua generazione, la vittoria e la smobilitazione non interruppero del tutto i suoi rapporti con l’amministrazione pubblica, sebbene le sue energie fossero impegnate a quel punto in una nuova ed esaltante sfida: la direzione della London School of Economics, che egli mantenne per quasi due decenni con l’obiettivo di promuovere lo sviluppo delle scienze sociali e di proporle come valido supporto nell’elaborazione delle politiche pubbliche.
Lo scoppio del nuovo conflitto mondiale lo incoraggiò a offrire i propri servigi al governo di coalizione nazionale, nella speranza che l’influente leader laburista Ernest Bevin, neoministro del Lavoro, gli affidasse compiti di rilievo nella gestione delle risorse umane finalizzata allo sforzo bellico. Differenze caratteriali e di indirizzo politico tra i due confinarono Beveridge alla presidenza di una commissione interministeriale di studio per la razionalizzazione amministrativa degli schemi di sicurezza sociale.
Da questa posizione di apparente retroguardia, Beveridge affrontò il nuovo compito con la consapevolezza che i tempi rivoluzionari in cui stava operando richiedessero riforme profonde e improntate a un nuovo approccio sistemico, piuttosto che misure di semplice rammendo dell’esistente. Ben oltre il mandato iniziale che era stato conferito a Beveridge, il rapporto finale «sulle assicurazioni sociali e i servizi correlati» auspicava una rivoluzione copernicana per il welfare state britannico, a cominciare dall’affermazione programmatica che le istituzioni statali dovessero assumersi il compito di garantire indistintamente a tutti i cittadini le condizioni per condurre «un’esistenza dignitosa». Tale obiettivo era nel pieno interesse dello Stato stesso, che sul cammino verso una pronta e necessaria ricostruzione postbellica doveva sconfiggere «cinque giganti», identificati dal Rapporto con il bisogno, l’ignoranza, la malattia, lo squallore e l’ozio.
Per quanto esso rielaborasse suggestioni già sperimentate in situazioni d’emergenza (negli Stati Uniti del «New Deal» di Franklin D. Roosevelt) o in campi d’azione più limitati (la Nuova Zelanda), lo schema di Beveridge doveva il suo carattere di assoluta novità all’affermazione che, accanto ai diritti civili e politici, ciascun cittadino senza distinzioni fosse titolare anche di diritti sociali, del cui pieno godimento lo Stato doveva farsi garante dalla culla alla tomba. Questo doveva includere innanzitutto l’assicurazione di un reddito, coniugandosi con il perseguimento della piena occupazione da parte dello Stato teorizzato da John Maynard Keynes (che ebbe modo di leggere e commentare la bozza del Rapporto), o la sua temporanea sostituzione con un sussidio di disoccupazione. La novità dell’impianto universalistico era evidente anche nelle altre proposte, che comprendevano tra l’altro un’assicurazione sociale garantita a ciascun cittadino, al quale veniva così risparmiata l’odiata e umiliante procedura di richiesta degli aiuti e di verifica del suo stato patrimoniale; e la definitiva creazione, a lungo rimandata, di un Servizio sanitario nazionale con standard minimi di prestazioni garantiti a chiunque. Pur consapevole che l’intero impianto avrebbe richiesto sacrifici significativi in termini di tassazione, Beveridge suggeriva però che i tempi fossero i più propizi alla sua edificazione: sia perché la guerra «cementa[va] l’unione dello spirito nazionale» necessaria all’impresa; sia perché il diffuso apprezzamento per il ruolo svolto dallo Stato nel gestire l’economia di guerra avrebbe reso più facile e accettabile l’estensione dei suoi poteri anche in tempo di pace.
Più in generale, la vicenda del Rapporto è inscindibile dal contesto storico in cui maturò. Inizialmente accolto con freddezza dagli ambienti conservatori, esso fu infine reso pubblico con l’obiettivo di offrire alla popolazione una prospettiva della ricompensa che la attendeva alla fine dei sacrifici imposti dalla guerra. La sua prima tiratura di cinquecentomila copie andò esaurita rapidamente nel novembre del 1942, garantendogli ancora oggi il primato di documento governativo più venduto di sempre in Gran Bretagna. Un’edizione ridotta fu distribuita alle truppe dal ministero dell’Informazione, per rafforzarne il morale proprio nel momento in cui le sorti del conflitto volgevano al meglio, ma la sua conclusione appariva ancora lontana.
Debitamente tradotto, il Rapporto fu anche distribuito nei contesti bellici in cui erano presenti truppe britanniche, a cominciare dall’Italia, in cui esso fornì alimento al dibattito sulle riforme sociali necessarie ad archiviare definitivamente il fascismo. Ma fu soprattutto in patria che il rapporto divenne la road map del governo laburista guidato da Clement Attlee, nato dalle prime elezioni postbelliche. Ostacoli di natura sia tecnica che economica portarono a risultati ben più contenuti del piano originario; nondimeno, molte intuizioni di Beveridge divennero realtà e furono confermate anche dai successivi governi di matrice conservatrice, a dimostrazione che essi erano ormai parte di un patrimonio politico condiviso.
Prima ancora di subire l’attacco frontale dei governi di Margaret Thatcher a partire dal 1979, tuttavia, il modello beveridgeano si era esposto nei decenni a una serie di fondate critiche. Le prime, ovviamente legate alla difficile situazione postbellica, riguardavano la sua sostenibilità per le casse dello Stato e le tasche dei cittadini; ma anche quando il welfare state poté giovarsi dell’impetuosa ripresa economica dei «Trenta gloriosi» (il periodo fra il 1945 e il 1975), apparve sempre più chiaro come esso poggiasse su ragioni di scambio diseguali e sulla disponibilità di materie prime a basso costo che presupponevano una distribuzione ineguale dello sviluppo economico su scala globale: l’impetuosa irruzione della decolonizzazione e la crisi energetica degli anni Settanta avrebbero reso drammaticamente chiaro il fenomeno. Quanto al contesto locale, un problema evidente sin dall’origine riguardava la difficoltà di fissare i livelli minimi di sussistenza su cui poggiava l’intero edificio: sia perché essi potevano variare sensibilmente su base geografica, sia perché la loro espressione in termini meramente economicisti appariva sempre meno capace di descrivere una realtà più composita.
Dagli anni Sessanta il piano si esponeva anche a denunce di obsolescenza, dati i toni moraleggianti di alcune sue sezioni (come i riferimenti a «ozio» e «squallore») e l’impianto generale ritagliato su un modello di famiglia patriarcale e mononucleare sempre meno rispondente alla rapida e tumultuosa mutazione che la società stava sperimentando. Più tardi, l’allungamento della vita media e l’invecchiamento della popolazione avrebbero promosso il ripensamento del modello e numerosi tentativi di rivederne l’impianto universalista. Infine, gli ambienti progressisti più avanzati non mancarono mai di notare che il piano Beveridge sembrava trascurare ogni finalità di redistribuzione e promozione sociale dei suoi beneficiari, al contrario di altre esperienze di Stato sociale tipiche fra gli altri dei Paesi scandinavi.
Tanto nella sua sostanza quanto nei fenomeni di emulazione e nelle critiche ricevute, il Rapporto Beveridge rimane un elemento centrale della storia politica e sociale del secondo dopoguerra: è dunque lodevole l’iniziativa di Biblion di riproporne il testo integrale, nella Biblioteca di Critica Liberale, tradotto e corredato dalla presentazione di Riccardo Mastrorillo e dalla prefazione di Giovanni Perazzoli. Entrambi hanno il merito di insistere su un punto poco noto ma tutt’altro che secondario: William Beveridge si considerava un liberale, distante dal conservatorismo che rifiutava di prendere atto della necessità di riforme radicali, ma anche separato dai laburisti per la convinzione che l’ingerenza dello Stato dovesse limitarsi esclusivamente a «curare i mali che non sono curabili altrimenti», e certamente non ad agevolare la transizione verso il socialismo. Nel 1944 fu anche eletto deputato nelle liste del Partito liberale. Ma il suo liberalismo era ben lontano da quello oggi dominante, prigioniero di logiche esclusivamente economiciste e incapace di considerare lo Stato e il suo intervento in ambito sociale come complementare e persino propedeutico rispetto all’economia di mercato.