La Stampa, 29 ottobre 2022
La marcia su Roma e Giorgia Meloni
Il 28 ottobre 1922 morì la democrazia e l’Italia si consegnò a un regime totalitario che per venti lunghi anni l’avrebbe privata della libertà. È una data nefasta, ma proprio per questo va ricordata e il silenzio delle nostre autorità politiche (quello della Presidenza del Consiglio, in particolare) è così incongruo da tradire più di un imbarazzo.La «marcia su Roma» svelò un’Italia preda di una sorta di ubriacatura collettiva, con Mussolini che riuscì nel capolavoro di incarnare sia il rivoluzionario che prometteva un futuro radioso, sia il restauratore che avrebbe ristabilito l’ordine e la legalità, sgominando i sovversivi e i «professionisti del disordine». Pochi anni dopo, alla fine del 1925, quando l’assassinio di Giacomo Matteotti e il varo delle leggi fascistissime aveva pienamente svelato la natura liberticida e sanguinaria della dittatura, 6.500 comuni, su un totale di circa 8 mila, avevano già conferito la cittadinanza onoraria al Duce. La sua Segreteria particolare traboccava di onorificenze, omaggi, dediche, lasciando affiorare una folla di italiani servili e compiaciuti di esserlo, deferenti, ossequiosi, pronti a barattare la propria sovranità individuale e la propria autonomia in cambio di protezione e sicurezza.Oggi, in chiave storiografica, sono chiare le ragioni complessive del successo del fascismo: la guerra e la violenza, la crisi dello stato liberale, la paura dei ceti medi, la frammentazione delle opposizioni, il carisma e la personalità di Mussolini. Molti liberali, cattolici, e persino socialisti come Anna Kuliscioff (amica e collaboratrice di Turati) erano convinti che il fascismo avrebbe avuto vita breve, destinato a declinare una volta che il nuovo governo avesse restaurato la «pace sociale». Il fatto è che, allora come adesso, il risultato immediato di una rovinosa disfatta politica è quello di suggerire strategie difensive affannose, prive di lucidità, segnate da recriminazioni e rancori reciproci. E fu così che per venti anni ci si disabituò alla libertà fino ad averne paura, si esaltarono valori come la disciplina, l’obbedienza, la gerarchia, che finirono per avvelenare le coscienze degli italiani, seppellendo sotto una cappa di asfissiante burocrazia ogni fermento innovativo, ogni tentativo di rottura con il conformismo dominante. L’obbedienza al potere, il tirare a campare, l’individualismo, il programma esistenziale del «tengo famiglia» e «mi faccio i fatti miei» si imposero come i valori dominanti e lasciarono affiorare i tratti di un’«autobiografia della nazione» che il fascismo enfatizzò, potenziandoli al massimo.Ne derivò, come scrisse Piero Calamandrei, «un’atmosfera di prepotenza e viltà, di compromesso e di corruzione» nella quale si impose un «costume» fascista che serpeggiava, fermentava, circolava, «alimentando altre ruberie, incoraggiando altre tracotanze, suscitando altre oppressioni».Le conseguenze di questa desertificazione morale emergono nitidamente dalle immagini della folla plaudente e inconsapevole che inneggia a Mussolini il 10 giugno 1940, la data della dichiarazione della guerra, l’inizio della rovina del regime. Nato nelle trincee della Prima guerra mondiale il fascismo fu travolto dalle macerie della Seconda e l’Italia del Duce visse l’inedita esperienza della guerra combattuta sull’uscio di casa, con conseguenze devastanti: 70 mila morti sotto i bombardamenti, l’unità nazionale in frantumi, gli eserciti alleati e quelli tedeschi a spadroneggiare sul nostro territorio. Altro che «prima gli italiani»: sul nostro suolo vennero a combattere da tutto il mondo, nepalesi e brasiliani, senegalesi e neozelandesi, in una babele linguistica che alterò profondamente le coordinate della nostra esistenza collettiva, costringendoci a vivere il disagio di tutte le malattie morali e materiali innescate dalla guerra. Macerie, lutti e le ferite di una sanguinosa guerra civile: questo fu il lascito del fascismo all’Italia repubblicana.Ma Giorgia Meloni poteva dire tutto questo? Avrebbe potuto dire che rinunciare alla libertà e alla democrazia comporta la rovina di un popolo? Riconoscere oggi l’enormità del disastro causato da un regime totalitario (e lei lo ha fatto) e visto che l’Italia di Mussolini è stata (come lei ha detto?) una dittatura, ne consegue un passo ulteriore: il doveroso omaggio a quei pochi italiani che nel nome dell’antifascismo sacrificarono se stessi per riscattare la vergogna di essere precipitati nell’abisso totalitario. Furono 5 mila 620 i condannati dal Tribunale speciale, (per la precisione 3898 operai, 546 contadini, 221 professionisti, 238 commercianti, 296 impiegati 37 casalinghe) e 15.806 quelli deferiti allo stesso Tribunale. Pochi, pochissimi rispetto ai milioni di persone che affollavano le piazze di Mussolini e correvano a prendere la tessera del PNF (il Partito Nazionale Fascista). Quando, nel 1931, il governo approvò un decreto legge sull’ordinamento dell’istruzione superiore che introduceva l’obbligo per tutti i docenti universitari di giurare fedeltà al fascismo, su 1200 professori solo 12 ebbero il coraggio di rifiutare il giuramento e quei 12 si ritrovarono a fare i conti con il fascismo trionfante che prese a deriderli, giudicandoli poco più che un piccolo gruppo di folli.Ma, come aveva detto Pietro Verri, «se la mia è una follia, io so che la società sarebbe migliore se ci fossero meno saggi». E furono proprio quei «folli» a riscattare l’ignavia dei «saggi».Se oggi Giorgia Meloni siede sulla poltrona di Presidente del Consiglio deve ringraziare l’antifascismo che seppe riconsegnare all’Italia quella democrazia che la «marcia su Roma» aveva annientato. Tutto l’antifascismo: quello dei cospiratori, quello spontaneo, quello organizzato, quello dei partigiani, quello degli operai, quello militante, quello degli studenti, quello delle donne: insieme hanno lottato tutti per consentire a ognuno di essere quello che vuole essere.