il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2022
La letteratura degli operai
Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class, in libreria per minimum fax, è un saggio militante come se ne leggono di rado, capace di sfidare la pigrizia di svariati punti di vista. Alberto Prunetti, classe 1973, già autore di Amianto, dipana il suo j’accuse a cominciare dalla distinzione tra letteratura working class e letteratura sul lavoro perché in seno a quest’ultima è contemplato il diario di fabbrica come l’apologia del capitano d’industria.
Se da una parte Prunetti rivendica la letteratura della classe operaia, dall’altra è costretto a domandarsi: “È letteratura working class anche quella fatta da un autore di classe media che parla di operai?”. Risposta non semplice se è vero che “scrivere è considerato roba borghese” e che “i proletari non scrivono”. Prunetti non ha mezze misure: “I calli sono per me la rappresentazione corporea della ferite di classe cicatrizzate, il punto in cui si condensano i racconti fatti da dentro una condizione di oppressione”.
Ecco allora esempi illuminanti da Oltremanica. Douglas Stuart ha vinto il Booker Prize con Storia di Shuggie Bain (Mondadori), storia di una proletaria di Glasgow. Graeme Armstrong con La gang (Guanda) descrive il disagio di giovani proletari scozzesi tra rave e suicidi. “Un conto è studiare la povertà, un altro è sentire la fame nello stomaco” puntualizza Prunetti e ha gioco facile nel ripercorrere taluni limiti della nostra letteratura industriale. Sì perché, per menzionare due esempi paradigmatici, Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri o Memoriale di Paolo Volponi hanno catturato solo l’alienazione alla catena di montaggio. “Un’astrazione da colletti bianchi” per intellettuali che con gli operai non andavano certo in curva allo stadio. Negli stessi anni, sulla scena britannica, un autore come Alan Sillitoe in La solitudine del maratoneta gli operai li manda al pub a fare baldoria. Più avanti è Irvine Welsh, vedi Trainspotting, a mostrare i figli dei padri massacrati dalle riforme thatcheriane alle prese con alcol e sostanze per “placare le ferite psichiche”.
Non sono mancati entro i nostri confini autori di altrettanta forza evocativa. Dall’operaio pugliese Tommaso Di Ciaula con Tuta blu o il metalmeccanico emigrato Luigi Di Ruscio con opere come La neve nera di Oslo. È vero che negli ultimi anni si è tornati a scrivere di lavoro ma i titoli più mediatizzati sono stati quelli che hanno descritto l’emergenza del precariato: Il mondo deve sapere di Michela Murgia sulla realtà dei call center, Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese di Aldo Nove su professionisti mobbizzati, Cordiali saluti di Andrea Bajani centrato sulle lettere di licenziamento. Sul lavoro in fabbrica sono emerse opere riuscite come Mammut di Antonio Pennacchi, su un operaio sindacalizzato che si prodiga per i diritti dei colleghi, e meno riuscite come Acciaio di Silvia Avallone, “rappresentazione della classe lavoratrice priva di qualsiasi realismo, a tratti grottesca”.
Tra romanzi, memoir e graphic novel, sono diverse le opere capaci di raccontare con efficacia “il rimosso che ritorna”. Da La fabbrica del panico di Stefano Valenti a Ferriera di Pia Valentinis. Da Inox di Eugenio Raspi a La straniera di Claudia Durastanti, “storia di classe, disabilità e di emigrazione”. Prunetti risolleva L’amica geniale di Elena Ferrante da certo biasimo critico evidenziando come la tetralogia sia “una delle descrizioni letterarie popolari più efficaci delle intersezioni tra classe, genere e questione meridionale in Italia”. Oltralpe è utile menzionare almeno Chi ha ucciso mio padre di Édouard Louis: l’adesione di un padre operaio agli ideali di nazionalismo e di omofobia è spiegata come l’esito di un plagio.
Joseph Ponthus, alla cui memoria Prunetti dedica il suo saggio, ha destato clamore in Francia con Alla linea, tradotto da Bompiani e in questi giorni in libreria. Un romanzo in versi di un operaio interinale nei mattatoi bretoni. Un duro lavoro dentro lo sporco delle viscere di pesce. Del resto, come riconosce Prunetti, “se volete dare da mangiare le scatolette al vostro gatto, qualcuno deve pur farlo”. Un’opera in controtendenza rispetto a ciò che richiede oggi la grande editoria, che reclama una narrativa che non parli di sudore e di sciopero ma di “crisi personale, nostalgia, amore e giardinaggio per rendersi appetibile al lettore medio, nel senso di classe media”. Una ragione di più per esaltare un capolavoro di working class come Donna delle pulizie. Lavoro duro, paga bassa e la volontà di sopravvivere di una madre di Stephanie Land (da cui la serie Netflix Maid), libro scritto dall’autrice rubando le ore al sonno, imbottita di ibuprofene per non sentire i dolori alla schiena causati dai turni estenuanti di pulizie dei cessi.