il Giornale, 28 ottobre 2022
Essere Joan Didion
Il titolo originale è Why I Write, «rubato» a George Orwell, con quella ripetizione del suono «i», ovvero «ai», in inglese, che a Joan Didion piaceva moltissimo, insieme alla brevità e mancanza di ambiguità di quelle «tre parole». E così Why I Write, in italiano Perché scrivo, ha dato prima il titolo a un saggio scritto nel 1976 e, ora, a una raccolta, finora inedita in Italia, di dodici interventi, in libreria da oggi per ilSaggiatore (pagg. 146, euro 17; traduzione di Sara Sullam), che sta pubblicando (o ripubblicando) tutte le opere di Joan Didion. Perché scrivo esce in occasione dell’anniversario della morte della scrittrice americana, il 23 dicembre del 2021 ed è un viaggio nel suo mondo, sia temporale, visto che i saggi sono stati composti fra il 1968 e il 2000 (cinque anni prima di vincere il National Book Award con L’anno del pensiero magico), sia geografico, poiché ci si muove dalla California a New York, dalla magione di William Randolph Hearst alla redazione di Vogue, dal salotto di Nancy Reagan a quello di Martha Stewart, sia, soprattutto, immaginario, da una riunione dei Giocatori anonimi alla stampa underground, dalle prime didascalie alle riflessioni su Hemingway...
Al centro di tutto c’è la Letteratura: quella alla quale Joan Didion ha dedicato la vita, prima alla scuola del new journalism di Tom Wolfe, poi muovendosi fra reportage, non fiction e romanzi fino a definire uno stile che era tutt’uno con la sua identità e con il suo sguardo. E scrivere era, per lei, proprio una questione di sguardo: in Ultime parole, un saggio su Hemingway scritto nel 1998 per la pubblicazione del romanzo postumo Vero all’alba, spiega che «la grammatica stessa di una frase di Hemingway dettava, o era dettata da, un certo modo di guardare il mondo, un modo di guardarlo senza farne parte, un modo di attraversarlo senza attaccarcisi, una sorta di individualismo romantico adattato con precisione al suo tempo e alle sue fonti». È grazie a questo sguardo, che si fa grammatica, che Hemingway riesce a comporre quello che Didion ritiene un paragrafo perfetto, l’incipit di Addio alle armi: «Quattro frasi solo all’apparenza semplici, 126 parole, la cui composizione resta per me insieme misteriosa e appassionante ora come quando lo lessi per la prima volta, a dodici, tredici anni e pensai che, se l’avessi studiato con la dovuta attenzione e mi fossi esercitata abbastanza, un giorno anche io sarei riuscita a comporre 126 parole in quel modo». Di sguardo parla Bret Easton Ellis, che amava così tanto Joan Didion da intitolare il suo saggio White in omaggio a The White Album (un viaggio nell’America grandiosa e decadente degli anni ’60 e ’70): «La prospettiva da cui lei guardava ogni cosa è totalmente diversa da quella di chiunque altro».
Da dove venga questa prospettiva non è qualcosa che Didion lasci avvolto nel mistero, come usa fra gli artisti: «Le persone il cui lavoro è creare qualcosa dal nulla non amano molto parlare di ciò che fanno, o di come lo fanno (...) Prevale la superstizione, la paura che quel qualcosa di fragile e incompiuto vada in pezzi, svanisca, torni al nulla di cui è fatto» nota in Certe donne (che ricorda il periodo in cui lei, bellissima, più di una modella, seguiva quanto avveniva sui set fotografici). Joan Didion non ha questa paura. Come non teme di sbirciare dietro il tendone del mito della California, di denudare i re pionieri, di andare alle radici marce della fioritura dell’Ovest dorato. Così va a fondo di ciò che lei stessa è, «ossia una scrittrice». Nel saggio Perché scrivo ricorda gli anni da studentessa a Berkeley: «Provai, con l’energia disperata della tarda adolescenza, a comprarmi un lasciapassare temporaneo per il mondo delle idee, a formarmi una mente in grado di gestire l’astratto. In breve, provai a pensare. Fallii». In questo fallimento era la sua stessa essenza di scrittrice, anche se non lo avrebbe capito subito: «La mia attenzione tornava inesorabilmente allo specifico, al tangibile, a ciò che veniva generalmente considerato, da tutti i miei conoscenti di allora, che poi sono quelli di oggi, periferico». Per esempio: un pero in fiore fuori dalla finestra, le luci sulla collina, i vetri oscurati del Greyhound che doveva prendere ogni venerdì da Sacramento (la sua città, dove era nata nel 1934, americana di quinta generazione) per andare a seguire un corso su Milton... Questa preclusione al «mondo delle idee» si è tradotta in scrittura come modalità di entrata nel mondo, e in sé stessa: «Se avessi avuto in dono almeno un minimo di accesso alla mia mente, non ci sarebbe stata ragione di scrivere. Scrivo solo per scoprire che cosa penso, che cosa guardo, che cosa vedo e che cosa questo significa. Che cosa voglio e che cosa temo». Scrivere è la sua connessione con la realtà, del suo Paese, della sua famiglia, del mondo che la circonda (dalle celebrità in giù...) e della sua stessa identità. Scrivere è ciò che fa, a distanza di anni, per capire che cosa sia stato quel rifiuto ricevuto dall’Università di Stanford (tutti i genitori dovrebbero leggere il saggio Sul non essere scelti dall’università di propria scelta). O per riannodare i fili di quel corso, «Inglese 106 A», considerato «una sorta di esperienza sacramentale», in cui non disse mai una parola e se ne stette sempre seduta nascosta sotto «un impermeabile sporco» ad ascoltare gli altri: avrebbe dovuto presentare cinque racconti in sei mesi, ne portò soltanto tre, e poi non scrisse più una storia per dieci anni. Fino a Vogue.
Proprio lì aveva imparato a «giocare con le parole», prima per fare un titolo, poi un redazionale, poi iniziando ad annotare tutto quello che vedeva e sentiva, una lunga storia che in cinque anni era diventata il suo primo romanzo, Run River, con la nostalgia per la sua California che scorreva in mezzo a Manhattan. È a Vogue che le avevano insegnato: «Potala, ripuliscila, vai al punto». E lei lo aveva fatto, ripulendo e andando al punto proprio di tutto: dell’America, degli altri, degli affetti, del dolore, di sé stessa e della scrittura, la dea che la abitava.