Corriere della Sera, 28 ottobre 2022
Biografia di Carlo Guarienti
FERRARA Il più bel regalo che il grande pittore e scultore, e anche medico, Carlo Guarienti potesse ricevere nel giorno del suo novantanovesimo compleanno è la mostra personale e antologica delle sue opere, che si inaugura oggi, lui presente, nel Castello Estense di Ferrara (domani l’apertura al pubblico). Un regalo che non è soltanto una sorta di Oscar alla carriera, ma un riconoscimento vero al merito e al valore dell’indagine artistica di Guarienti sul passato e sul presente, sulla realtà e su ciò che la trascende. Rispetto all’invidiabile traguardo dei 99 anni di Henry Kissinger, per capirci, i 99 anni di Guarienti non sono soltanto il preludio a un naturale epilogo. Sono la continuazione di una storia – quella dell’arte come massima espressione dell’umano – che non finirà mai finché esisterà il mondo, una storia che coinvolge la materia e lo spirito, e sovverte la tendenza comune che vuole il secondo subalterno al primo, se non una pura e semplice «illusione».
La mostra, ideata da Vittorio Sgarbi e curata da Pietro Di Natale, Vasilij Gusella e Stefano Sbarbaro, non a caso si intitola La realtà del sogno, con l’esplicito richiamo, sì, alla realtà, ma nel senso in cui l’ha definita William Shakespeare, fatta cioè «della sostanza di cui sono fatti i sogni». Il percorso artistico di Guarienti, raccontato da 111 dipinti in 14 sale del meraviglioso Castello Estense, dimostra che può essere, anzi, che è proprio così: il sogno ha una realtà che la realtà stessa non comprende.
Il cammino di Guarienti, che è nato a Treviso, comincia molto presto, a 23 anni, quando è ancora studente di Medicina a Padova e «applica» alla sua prima grande opera d’arte, San Gerolamo — un olio su tavola che, dice Sgarbi, «è degno di un artista rinascimentale» —, l’esperienza maturata durante gli ultimi due anni della Seconda guerra mondiale (in seguito alla chiamata alle armi) all’Accademia di Belle arti di Firenze come «preparatore di anatomia artistica». Una esperienza traumatica, come racconterà egli stesso: «Legavo le arterie, toglievo la pelle, ripulivo i muscoli, dipingevo organi color sangue, purché fossero belli rossi, poi, riconoscibili in sala anatomica… Portati dentro direttamente dai bombardamenti, arrivavano dei cadaveri giovani, che soltanto la mia generazione ha avuto il “privilegio” di vedere. Non vecchietti: ma sventrati, sbudellati, magari senza torace… Un puzzo terribile e tu dovevi starci sopra, a contatto, per “preparare” l’anatomia». In questo racconto è già presente il San Gerolamo che Guarienti dipingerà poco tempo dopo, con tutta la sua plasticità, la sua forza espressiva, il suo sguardo allucinato e inquietante. San Gerolamo è un santo il cui corpo, scrive Stefano Sbarbaro, «non è altro che l’insieme dei resti mutilati dei caduti che l’artista ha dovuto artificiosamente ricomporre».
Studente di medicina
Nel «San Gerolamo» riversa l’esperienza fatta come preparatore di anatomia artistica
È il periodo in cui Guarienti aderisce al Manifesto dei pittori moderni della realtà — con Sciltian, Annigoni, i fratelli Xavier, Bueno —, ma è solo l’inizio di un cammino che lo porterà un po’ ovunque, dalla tecnica dello strappo degli affreschi e l’uso di intonaci scrostati negli anni Sessanta alla Pop Art negli anni Settanta, e che lo spingerà molto lontano, poiché già in quella sua prima opera Guarienti ha compiuto il salto che gli ha fatto oltrepassare la realtà con i suoi confini e precetti. Con quel Manifesto, egli avverte il rischio di rimanere intrappolato in un equivoco e così conclude, come afferma Elena Pontiggia, che «non si tratta di dare l’illusione della realtà, come volevano i “pittori moderni”, ma di comprendere che la realtà è una illusione».
Guarienti ormai guarda a Giorgio de Chirico e partecipa all’Antibiennale di Venezia del 1950 organizzata dal Pictor Optimus in polemica con l’arte moderna. È curioso sperimentatore di tutto e si incammina verso un proprio surrealismo (ma il San Gerolamo è tanto reale da essere già surreale), cerca una nuova metafisica, punta all’astrazione. Insegue la immaterialità, Guarienti, ma è sempre ancorato alla lezione dei grandi maestri del Quattrocento italiano. Cerca l’essenza della forma, sempre, sia quando dipinge nature morte, sia quando ritrae la figura, prevalentemente di donna, ma anche l’altrui e la propria. Fino a far prevalere lo spazio e le linee geometriche, e a far scomparire l’uomo. Perché è in questa scomparsa la dimostrazione che tutto evapora, tutto sparisce, e di questo bisogna essere consapevoli. Resta solo l’arte, che dalla realtà può condurci al sogno, come il mezzo realizza il fine, poiché la rappresentazione della realtà fine a sé stessa non significa nulla. E Guarienti è un visionario. Un artista che ha sempre parlato poco delle proprie opere, e che una volta, sembra davanti al dipinto Non si deve rimanere troppo a lungo lontani, richiesto di «spiegare», non esitò a dare una risposta unica e definitiva. «Un’opera – disse, e dice tutt’ora Carlo Guarienti – non deve essere spiegata. Va osservata, ammirata, vissuta. Coloro che cercano di parlare delle loro opere, che pretendono di spiegarle, non sono artisti, ma raccontano storie».