la Repubblica, 27 ottobre 2022
Cosa c’è nel Museo delle Civiltà di Roma
Due milioni di opere e documenti, distribuiti su circa 80.000 metri quadri di sale espositive e depositi: sono i numeri, persino difficili da cogliere, del Museo delle Civiltà di Roma, che il direttore Andrea Viliani ha ricordato presentando i nuovi percorsi di visita e i progetti di ricerca che, dopo l’istituzione del museo nel 2016, rappresentano il suo primo passo verso futuro. Numeri imponenti, che da soli tuttavia non rendono ancora l’importanza simbolica del luogo, o meglio dei luoghi che da oggi iniziano un percorso in progress, così ci tiene a definirlo Viliani, per raccontare al pubblico una pluralità di storie su chi siamo stati e anche su chi saremo: noi italiani, ma anche noi genere umano, dagli albori dell’umanità al XXI secolo.
Affacciata su piazza Marconi, la doppia sede del Palazzo delle Scienze e del Palazzo delle Tradizioni Popolari fu edificata per la mai inaugurata Esposizione Universale di Roma (E.U.R.) del 1942. Con le loro sale dai soffitti altissimi, i marmi chiari, le ampie scalinate e i terrazzi colonnati, gli edifici che la compongono sono la rappresentazione plastica delle ambizioni, anche architettoniche, del regime fascista. Il razionalismo e l’ampiezza degli spazi, la luce, gli affacci (dalle finestre si scorge l’obelisco Marconi di Arturo Dazzi, commissionato nel 1939), pur così connotati storicamente, al tempo stesso offrono enormi possibilità per curatori e allestitori che vogliano reimmaginarli senza stravolgerli. Ciò che contengono, nei depositi e nelle sale, è invece una stratificazione impressionante di manufatti e reperti confluiti qui da istituzioni diverse: il museo preistorico etnografico “Luigi Pigorini”, il museo d’arte orientale “Giuseppe Tucci”, il museo dell’Alto Medioevo e delle Arti e Tradizioni Popolari, le collezioni dell’ex Museo Coloniale. Basta leggerne i nomi per intuire quante questioni – dall’enorme tema della “decolonizzazione” a quello delle restituzioni – un simile progetto di riallestimento porti con sé, quanti soggetti coinvolga, quanta cautela e ricerca debba implicare riproporre agli occhi dei visitatori odierni ciò che qui è stato raccolto e conservato.
Il piano di riallestimento, che dovrebbe concludersi nel 2024 (ma già in primavera si toglieranno i ponteggi che ora chiudono l’esterno), può contare su 10 milioni di euro di fondi stanziati. E «toglie la polvere»,nell’espressione usata dal direttore generale dei Musei Massimo Osanna, partendo da alcuni pezzi forti. Nel Palazzo delle Tradizioni Popolari, le teche del piano terreno e le sale del primo piano mostrano manufatti monumentali (dai “ceri di Gubbio” alle macchine delle grandi feste religiose, come quella di Santa Rosa a Viterbo) ma anche oggetti d’uso quotidiano: stoviglie, album con i campioni del ricamo, carri dipinti, strumenti per l’agricoltura e la pesca, bollettini della migrazione italiana nelle Americhe di inizio Novecento: compongono il ritratto color seppia d’un’Italia postunitaria rurale e contadina ed evocano la ricchezza della sua cultura materiale, per la prima volta esposta in pubblico nel 1911 nella “Mostra Etnografica e delle regioni” di Roma. Proprio di fronte, nel Palazzo delle Scienze, il percorso Preistoria? Storie dall’Antropocene offre un assaggio della collezione preistorica del museo, la più ricca e articolata in Italia, che conta 150mila reperti. Un itinerario, nell’anno in cui il Nobel per la medicina è andato a Svante Pääbo per le sue scoperte sul genoma dei Neanderthal, che si interroga sulla definizione stessa di “preistoria”. Si vuole restituire a un’epoca lunghissima della vicenda umana la sua complessità, e togliere di mezzo l’equivalenza con l’etnografia ottocentesca che equiparava extraeuropeo e “primitivo”. Così guardiamo con occhi nuovi gli straordinari ritrovamenti qui esposti: il cranio neandertaliano Guattari 1, proveniente da una grotta del Circeo; le tre Veneri paleolitiche dei siti di Savignano, lago Trasimeno e La Marmotta; le piroghe ritrovate sul fondo del lago di Bracciano, insieme ai reperti del villaggio neolitico de La Marmotta, la FibulaPrenestina.
Così, mentre nella prima sala i teschi di differenti specie dihomo illustrano la nostra evoluzione, nell’ultima sala si dispiega un’«ominazione immaginifica», nelle parole del direttore Viliani, affidata all’artista e graphic designer Goda Budvytyt? e alla studiosa di nanotecnologie Laura Tripaldi, per provare a immaginare in che direzione ci stiamo evolvendo. Per elaborare una risposta, schivando la tentazione di cancellare le tracce scomode del passato, serve una riflessione coraggiosa. Ci aiutano gli artisti: sono sei quelli invitati a lavorare, attraverso sei research fellowship, sulle collezioni del museo, le provenienze e le storie degli oggetti. Tra loro c’è Sammy Baloji, congolese, che al momento espone agli Uffizi le sue repliche in bronzo e rame di due cuscini di rafia inviati come dono diplomatico dal re del Congo al papato nel Cinquecento.
«Un dono paritetico. Anni dopo, lo stesso re scriverà al sovrano del Portogallo per chiedere conto delle navi dei mercanti di schiavi sulle sue coste, e non riceverà risposta. I rapporti tra civiltà sono un intreccio che tocca a noi raccontare: le opere di Baloji, peraltro, fanno parte degli acquisti che il Ministero sta facendo per noi» nota ancora Viliani. Il contemporaneo, insomma, non come operazione di maquillage ma come spazio di riflessione che arricchisce di senso le testimonianze del passato. La prima mostra ospitata dal museo è di un artista africano. Si chiama George Senga, è congolese e nel suo lavoro – un’installazione di fotografie e un libro d’artista – ricostruisce la vicenda di Bonaventure Salumu, educato dai missionari in Congo, padre gesuita, vissuto in Europa e poi tornato in Africa, dove lascerà l’ordine e si farà una famiglia. Il “Pigorini” era il museo delle gite scolastiche. Ora promette ai suoi visitatori, di ogni età, ben altre avventure. Altro che polvere.