Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  ottobre 27 Giovedì calendario

L’immaginazione di Rousseau

“Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario”. Sono parole di Louis-Ferdinand Céline, poste in esergo a Viaggio al termine della notte. Anche i brevi viaggi, anzi, le passeggiate di Jacques Rousseau (1712-1778), circa due secoli addietro, facevano lavorare l’immaginazione. Poco prima prima di morire, il pensatore ginevrino scriveva: “Questi rapimenti, queste estasi, che io provavo talvolta passeggiando così da solo, erano delle gioie che dovevo ai miei persecutori: senza di essi non avrei mai trovato né conosciuto i tesori che portavo in me stesso. In mezzo a tante ricchezze, come tenerne un registro fedele?”.
Il brano fa parte dell’ultima opera scritta da Rousseau, Le fantasticherie di un viandante solitario (1778), lasciata incompiuta, che viene pubblicata ora nella nuova tradizione italiana di Ilaria Guidantoni (edita da Lorenzo de’ Medici Press, pagg. 152, euro 10). Se pure Le fantasticherie, come spiega la stessa Guidantoni nell’introduzione, “non hanno tutto lo splendore del genio di Rousseau”, quello delle Confessioni, “ne portano pur sempre il riflesso possente”. E “consentono al lettore di avere un ritratto completo non tanto del Rousseau filosofo e pensatore quanto di Jean-Jacques, uomo sofferente che stempera la rabbia in un ritiro dello spirito che, a dispetto di quanto dichiarato, non è arrendevole”. Un ritiro “nella natura, anzi allo stato naturale dove l’apprendimento è al di fuori delle accademie”.
Osservava il ginevrino abbozzando il piano di lavoro: “Queste pagine non saranno in realtà che un resoconto in forma di diario delle mie fantasticherie. Vi si troverà una domanda importante su me stesso, perché un solitario che riflette si occupa necessariamente molto di se stesso. Del resto, tutte le idee esterne che mi passano per la testa passeggiando vi troveranno nondimeno un loro spazio”.
Le passeggiate solitarie dell’autore del Contratto sociale sono all’origine di tanta letteratura del “camminare” dell’Ottocento e del Novecento, come del resto lo saranno il Walden, ovvero la vita nei boschi (1854) e il Camminare (1863) di Henry David Thoreau, ma anche la vita e l’opera poetica di Arthur Rimbaud, “l’uomo dalle suole di vento” nella definizione dell’amico Paul Verlaine. Senza dimenticare, tra i maestri, Joseph von Eichendorff, l’autore di Vita di un perdigiorno (1826), che scriveva: “Oh, presto può arrivare il tempo della quiete e anch’io riposerò nella solitudine del bosco armonioso, ma nessuno qui sa di me, e nessuno qui mi conosce”. Quel “dolce far niente” di von Eichendorff, peraltro, aveva avuto in Rousseau il primo grande cantore. Nella quinta passeggiata delle Fantasticherie di un viandante solitario annotava: “Qual era dunque questa felicità e in cosa consisteva la sua gioia? Farei indovinare a tutti gli uomini di questo secolo la descrizione della vita che vi conducevo. Il dolce far niente fu la prima e la principale delle ragioni di questa gioia che volli assaporare in tutta la sua dolcezza”.
Una nobile tradizione, questa delle passeggiate in solitudine, che, giungendo fino ai nostri giorni, annovera tra gli altri Friedrich Nietzsche e Hermann Hesse, Robert Walser e Friedrich Glauser, Patrick Leigh Fermor, Robert Byron e Bruce Chatwin, il Camminare di Thomas Bernhard, Winfried Sebald (che ha dedicato Il passeggiatore solitario a Walser) e il Pomeriggio di uno scrittore di Peter Handke.
In La passeggiata, Walser scrive che “appena fui sulla strada soleggiata mi sentii in una disposizione d’animo avventurosa e romantica, che mi rese felice”. C’è una sorta di filo rosso che lega i camminatori di ieri e di oggi, il filo della ricerca della libertà. Ecco Rousseau: “Avevo desiderato la campagna, l’avevo ottenuta. Non potevo soffrire la sottomissione, ero perfettamente libero, anzi più che libero”. Ed ecco il Beppe Fenoglio del Partigiano Johnny: “Partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana”.
Il viaggiare con l’immaginazione, il camminare per cercare ancora un cammino, sono le armi dei solitari. Pure nei nostri tempi poco felici. Si pensi ai viaggi e alle camminate di Paolo Rumiz. O al Supervagamondo. Viaggi e paesaggi, luoghi e incontri, miti e snobismi (Edizioni Settecolori, pagg. 789, euro 30) di Stenio Solinas, in uscita adesso. Un breviario affascinante, il suo, su ciò che c’era nel Novecento, in cui rifulge, tra le varie figure narrate, quella del colonnello Thomas Edward Lawrence, il Lawrence d’Arabia. Che scrisse: “Chiunque abbia assaporato l’Oriente come ho fatto io, non interromperebbe questo piacere per una poltrona a Oxford”.