la Repubblica, 26 ottobre 2022
Tolkien, un cantastorie da favola
Iquattro figli di Tolkien credevano in Babbo Natale. Ad ogni ricorrenza, il padre inviava loro delle lettere, spacciandosi per Santa Claus. Le epistole sono state poi raccolte dalla seconda moglie del terzogenito Christopher, Baillie, che fu la segretaria dello stesso Tolkien e poi di Isaiah Berlin. Durante tutto l’anno, invece, Tolkien scriveva favole per i figli. E le illustrava con disegni di suo pugno.
Quella di Mr. Bliss,oggi riproposta da Bompiani, il professore di Oxford aveva cercato di pubblicarla già alla fine degli anni Quaranta, dopo l’uscita de Lo Hobbit, e mentre era impegnato nella stesura de Il Signore degli anelli e nella inesausta produzione delle storie ancestrali della Terra di Mezzo.
Ma proprio la presenza delle illustrazioni create dall’autore, e gli alti costi che comportava stamparle, bloccò tutto. La favola vide la luce solo dopo il 1957, quando Tolkien vendette la sua produzione alla americana Marquette University. Oggi, grazie anche alle illustrazioni, ha un posto specialenell’universo tolkieniano.
Come Foglia di Niggle, ancheMr.Bliss custodisce dei segreti. È una favola illustrata con sapienza grafica da mago, che non può non ricordare la recente riscoperta dei potenti disegni di Kafka. Ma, in apparenza, sembra solo uno “scherzo” destinato alla famiglia. Si narra che l’idea sarebbe venuta allo scrittore in occasione dell’acquisto della prima automobile del figlio Christopher (che diventerà poi il curatore della sua opera) e delle peripezie che ne seguirono. Tolkien, nell’occasione, si sarebbe ricordato della sua prima auto di famiglia, comprata nel 1932 e chiamata “Joe Old” dalle lettere iniziali della targa. Mr. Bliss è appunto un signore dai molteplicicappelli alti e colorati, una sorta di “Cappellaio matto” di carrolliana memoria, che vive con Giraniglio (una giraffa-coniglio cieca e di stoffa) e che si procura un’auto dando in permuta la sua bicicletta d’argento. Iniziano così un periglioso viaggio da Crocevia a Boscotreorsi e una catena di disastri che presto coinvolgerà uomini, orsi, animali e l’intero villaggio.
Immancabile, e lucidamente perseguito, il lieto fine. Ma se si rapporta questa favola alle teorie che l’autore ci ha lasciato su certo “canone fiabesco”, si scoprirà che dietro il velo candido e leggero della narrazione di pura fantasia il pianeta Tolkien riemerge all’improvviso come un drago. «La fantasia aspira all’abilità elfica, all’incantesimo, e quando riesce gli si avvicina più di tutte le forme umane di Arte» ha sostenuto nelle sue lezioni sulle fiabe, con un motto che sarebbe piaciuto a Italo Calvino, e che rivela radici profonde in Shakespeare. Tolkien, a proposito della «pura fantasia», citerà più volte la visione quasi metafisica di un «caffé ordinario» da parte di Charles Dickens, e il conseguente e misterioso concetto dimooreeffoc in Chesterton, ovvero «la bizzarria delle cose divenute ovvie, quando sono osservate improvvisamente da una nuova prospettiva».
E siamo così al banale acquisto di un’automobile per il figlio, che dapprima attiva un ricordo (il mezzo analogo comprato dal padre nel 1932) e poi scatena l’irruzione di una storia fantastica, che va anche illustrata (come nel caso delle mappe della Terra di Mezzo) perché assuma concretezza, perché si possa vederla e non solo immaginarla. Ma non basta. Lo studioso irriverente sdogana il termine «evasione», che nella comune vulgata elide con “impegno”. Se ne fa un cattivo uso, dirà con insistenza Tolkien. «Perché mai un uomo dovrebbe essere disprezzato se, trovandosi in carcere, cerca di uscirne e di tornarsene a casa? O se, non potendolo fare, pensa e parla di argomenti diversi dai carcerieri e dai muri della prigione?». Tolkien è stato spesso protagonista di vere e proprie requisitorie in favore di tutti i “Mr. Bliss” delle fiabe. «Troppo spesso si confonde, non sempre in buona fede, l’evasione del prigioniero con la fuga del disertore… sembrerebbero preferire l’acquiescenza del collaborazionista alla resistenza dal patriota».
La realtà, dice Tolkien, è quella che è, nessuno lo nega. Ma vi sono negli esseri umani correnti antiche e profonde che puntano alla «evasione dalla morte»: il desiderio di legarsi ad altri esseri, sanare la separazione dalla natura e dagli animali, sperare in un “lieto fine” con intensità pari al dolore della condizione umana. Questa è la missione di una fiaba.