La Stampa, 26 ottobre 2022
I 70 anni di Roberto Benigni
Rousseau a Venezia si stupiva del fatto che i gondolieri cantassero versi della Gerusalemme liberata. Immagino che il suo stupore sarebbe stato ancora più grande se avesse saputo che in prima serata un grande comico italiano, Roberto Benigni, avrebbe letto Dante di fronte a una immensa platea televisiva. Certo, Benigni è toscano, come Dante. E Dante ha intitolato il suo capolavoro Comedia, non Tragedia, l’aggettivo «Divina» lo hanno aggiunto i posteri. Perché è proprio una commedia concreta, impastata di tristezza, riso, speranza e disillusione quella che ha dato vita a uno dei più grandi testi della letteratura mondiale.
Paragonare chicchessia a Dante è praticare un gioco sporco, ma vorrei far notare che in tutta la carriera di comico, e, per quanto ci è dato di sapere, nella sua vita, Benigni ha condiviso quella mescolanza ilarotragica che è nelle vene di una parte importante della letteratura italiana, quella polilinguista e impura, la via che da Dante conduce a Boccaccio, Gadda e a Pasolini (quest’ultimo, purtroppo, completamente privo di senso dell’umorismo), ossia il contrario della linea purista, lirica e assoluta alle cui origini c’è Petrarca.
Domani Benigni ha settant’anni, Dante è un punto d’arrivo, e non sono mancate le critiche di autocelebrazione, di tentativo di darsi un posto nella cultura alta, di esaurimento della genuina vena comica. Ma quale comico non ha perso verve, e dunque provato la necessità di rinnovarsi in altre forme, con il passare degli anni? Senza considerare che coloro che trovano integrato il giovane ribelle diventato vecchio non devono dimenticare che anche Totò le sue manie di grandezza le aveva, e che se Benigni è stato per anni grande amico di Eco, Totò si dichiarava senza alcuna ironia discendente dagli imperatori di Bisanzio.
La svolta tra il primo e il secondo Benigni, tra il comico che interpretava il contadino toscano quale effettivamente era, va posta pressappoco nel 1997, con «La vita è bella», che costituisce un tornante della carriera paragonabile al «Grande Dittatore» di Chaplin. Benigni aveva 45 anni, Chaplin 51 e da allora il loro rapporto con il cinema non ebbe più i tratti della comicità pura. Del resto, c’è poco da ridere del totalitarismo, e ancor meno da ridere dei Lager.
Qui, come è noto, a Benigni è stata mossa l’accusa di negazionismo, quasi che, mostrando che si può vivere anche ad Auschwitz, «Se questo è un uomo» di Primo Levi non fosse che una esagerazione. Levi è morto prima dell’uscita del libro e non sapremo mai che cosa ne avrebbe detto, sospetto tuttavia che qualche dubbio lo avrebbe nutrito. Molti autorevoli rappresentanti della comunità ebraica, del resto, hanno osservato che non si tratta di un brutto film, ma di una favola, e che andava detto, perché nulla di ciò che avviene nel film sarebbe stato possibile ad Auschwitz (bambini che possono nascondersi, mentre erano subito gassati o sottoposti a terribili esperimenti, detenuti ben nutriti, mentre erano death men walking). Così come è favola, anzi «una mascalzonata», come scrisse il grande registra Mario Monicelli, mettere la bandiera stelle e strisce invece che quella dell’Armata Rossa sul carro che libera Auschwitz. Perché farlo?
Sì, perché? La verità storica è un’altra, ma mettere la bandiera americana avrà aiutato per l’Oscar e il successo mondiale, ma è difficile liberarsi dall’idea di una certa furbizia popolana che, d’altra parte, è il nocciolo, la quintessenza di Benigni. La stessa che ha reso grande un film come «Non ci resta che piangere», del 1984, insieme con Massimo Troisi, che da questo punto di vista ha avuto, dal punto di vista della storia anche se non da quello della vita, più fortuna di Benigni, di cui era coetaneo.
Troisi, infatti, morì a quarant’anni, proprio un attimo prima di quella svolta che interviene nella vita di ogni comico, con l’esclusione forse del solo Peter Sellers, che però aveva una marcia in più rispetto a ogni altro comico, ossia la capacità di impersonare altrettanto bene dei ruoli drammatici. Perché con il dramma si può invecchiare, toccando vertici assoluti proprio prima della fine, come nella straordinaria interpretazione di Chance il giardiniere in «Being There». Con il comico è molto più difficile, e non tanto perché passi la voglia di vivere, quanto piuttosto perché (questa almeno la mia ipotesi) l’enorme tristezza che sta al centro del cuore di ogni comico si attenua, ci si abitua a vivere, l’assurdo sembra meno assurdo.
Insomma, invecchiare è difficile per tutti, e per i comici lo è anche di più. Il filo di tragedia che sta al centro della commedia si fa sentire, morde più forte, si può trasformare nella ricerca del fondo della bottiglia della felicità, per parafrasare una grande novella di Fitzgerald, o semplicemente la felicità al fondo di una bottiglia. Altre volte, è, inaspettatamente, il filo della commedia che balza fuori all’ultimo momento, come nella pazzia di Nietzsche o in Louis Aragon, che in vecchiaia subì la metamorfosi che trasformò un poeta nazionale e un funzionario in grisaglia del Partito Comunista Francese in un clown.
Ecco perché non sono d’accordo con coloro che vedono il «secondo» Benigni una forma di decadenza. Semplicemente, ha imparato a vivere, e oggi, a settant’anni, l’età limite posta da Dante (il mezzo del cammin di nostra vita sono infatti per lui i trentacinque anni) non ha nemmeno bisogno di imparare a morire, perché ha di fronte a sé ancora tanta vita, tanti riconoscimenti, tanti successi, sebbene di un tipo diverso di quelli che ne hanno segnato la gioventù.
È anche per questo che dobbiamo una particolare riconoscenza a Roberto Benigni, per quanto ci ha fatto ridere, per le luci e le ombre che ci sono nella vita sua come di ogni essere umano, e per quell’impasto tra un ragazzino manesco (come quando prese in braccio il serissimo segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer) e di toscano che in maturità sa far rivivere, nella sua lingua, quasi con una evocazione medianica, il suo grande conterraneo Dante Alighieri.