il Giornale, 26 ottobre 2022
I monologhi atletici di Carmelo Bene
Sedicesimi di Coppa dei Campioni, settembre 1983. La Roma affronta il Göteborg: dopo lieto affanno – 3 a 0 della Roma in casa, che perde 2 a 1 in Svezia – la lupa passa il turno. Per la cronaca, è il principio di una festa avvelenata dal finale. Allo Stadio Olimpico la Roma perderà la coppa ai rigori, contro il Liverpool: errori fatali di Bruno Conti e di Francesco Graziani. Restiamo ai sedicesimi. Carmelo Bene, sul Messaggero, scrive un articolo, «I tabelloni non segnano tutto», che spiega la sua visione del calcio. «Depositare un pallone inerte in una porta sguarnita equivale il più delle volte a defraudare il vero artefice che magari un attimo prima ha spiazzato una difesa intera. A quel punto il tabellone s’illumina d’incompetenza e il tripudio sugli spalti si colora di cattivo gusto». Cos’era accaduto? Che «Paolo Roberto il Grande» – per noi comuni collezionisti di figurine, Paulo Roberto Falcão – aveva arpionato la palla in modo «ineguagliabile» e «dopo fulminea torsione l’aveva stampata, cancellando il portiere, sul palo stregato». Passava di lì «il ragazzo Vincenzi» – alias Francesco Vincenzi, attaccante in potenza dall’alterna carriera – che butta in rete. Beh, Bene s’incazza: il gol è tutto di Falcão, benché il tabellone si ostini ad affibbiarlo a Vincenzi. Eccolo, il cattivo gusto, l’ingeneroso vilipendio del genio, la bieca protervia della scienza e della tecnica, lo sport ridotto a calcolo, a statistica, a norma enciclopedica per chiosatori inerti.
Quattordici anni dopo – settembre 1997 – Bene specifica il pensiero esaminando la distanza, abissale, tra atto e azione. L’azione «è una congiura, una trama ordita», il trionfo del collettivo sul regno dell’individuo; l’atto è il gesto estemporaneo del giocatore giocato dal proprio gioco, in stato d’estasi, bellezza suprema del corpo che richiede, a scandirla, l’endecasillabo, il ditirambo e l’ode, Pindaro e l’ululato iliadico. Per farsi capire, Bene snocciolò due esempi che ora paiono desunti da ere geologiche fa: i gol di Álvaro Recoba – demonietto sorridente dell’Inter – con la maglia dell’Uruguay, e una sortita involontaria – dunque: divina – di Clarence Seedorf, quando difendeva i blasoni del Real Madrid.
Si sa, Carmelo Bene s’inguainava di paradossi, caracollava nel caramello del talento: per lui, per dire, «Edberg... era il tennis in persona, poco importava che vincesse o perdesse, era un piacere, davvero divino, poter assistere a un match di Edberg». Ora: a ragion di statistica, Edberg, svedese di scaltrita eleganza, è letteralmente stritolato dal poderoso Pete Sampras (per intenderci: siamo 7 Wimbledon a 2 per Pete), ma tutto ciò, al cospetto della bellezza, che è sempre altra dal risultato, plebeo, è iniquo. Carmelo Bene amava quelli come lui, i primattori, la purezza cristallina dell’eletto, destinato a finire in croce, a essere frainteso: da qui la glorificazione di Marco van Basten, l’ammirazione per Falcão – «La grandezza è nell’essenzialità» -, il tributo al «bel francese», Michel Platini. L’assalto dei calciatori recordman – Lionel Messi, Cristiano Ronaldo etc. – che replicano l’atto eccezionale fino a ridurlo ad azione corrente, quotidiana, avrebbe annoiato Bene, supporter del gesto irripetibile e fine a se stesso, sferico, appunto, neoplatonico. Preferiva, semmai, «quello straordinario fenomeno che corrisponde al nome di Ryan Giggs».
Di suo, da ragazzo, Carmelo Bene – come Vladimir Nabokov, per altro – giocava in porta. I «piedi difformi» erano, pare, letali, «capaci di tiri dalle traiettorie irrimediabili», scrive Luca Buoncristiano nell’introduzione, partecipe e bella, a In ginocchio da te (Gog Edizioni, pagg. 210, euro 17), libro che raccoglie gli articoli di Bene, estremista della pedata, scritti per Il Messaggero tra il 1983 e il 1985 – la rubrica s’intitolava «Ripensandoci Bene» – e gli interventi alla trasmissione Zona, nel 1997, in onda su Telepiù. Carmelo tifava in modo sguaiato, filosofico, ovviamente teatrale: la prima del Macbeth al Quirino, nel 1983, la dedicò «a Nils Liedholm e alla magnifica squadra della Roma». Il 29 aprile di quell’anno si scagliò, scoglionato, contro Gianni Brera, «teorico dell’attentato a uomo», «fabbro pioniere in neologismi... altresì responsabile dell’ignominia linguistica-orale che ha ormai trasformato le nostre radio-tele-cronache nei più astrusi concili tridentini».
Chi lo ha conosciuto, sa che Bene era un estasiato esteta dello sport: guardava di tutto. Così, per dire, bacchetta Pietro Mennea perché nella sua corsa «si legge sin troppo affanno, sacrificio e spasimo. Tutto il penoso retroscena che la sostiene. E questo non è decente. Chi è grande si veste di leggerezza». Commenta le gare di automobilismo – preferiva Niki Lauda -, stende una Fenomenologia di Sergej Bubka, s’inchina agli augustei cazzotti di Evander Holyfield, «indiscutibile campione mondiale dei pesi massimi». Aveva capito, Bene, che lo stadio, immane vulva, è sublimazione del sesso, teatro dell’eros assoluto, l’ultimo, effimero istante, in un’esistenza altrimenti normata, normale e per lo più inutile, in cui il divino, spermatico, insorge, guerreggia, spira. Al cronista, l’obbligo di intuirlo, di intenderlo: Apollo cinge con il lauro un unico eroe, gli altri siano, almeno, degni gregari.