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 2022  ottobre 26 Mercoledì calendario

Ritratti di Enrico Mattei



Giuliano Garavini per Il Fatto

Il 27 ottobre 1962 in località Bascapè, vicino Milano, precipitava l’areo su cui

viaggiava Enrico Mattei, promotore e primo presidente dell’Ente nazionale idrocarburi. L’indagine coordinata dal sostituto procuratore Vincenzo Calia proverà nel 2003 che non si era trattato di un incidente, ma che il Morane-Saulnier di proprietà Snam era stato sabotato nell’aeroporto di partenza di Catania.
Nel corso di questi sessant’anni Enrico Mattei è stato oggetto di un culto alimentato ulteriormente da Il caso Mattei di Francesco Rosi: un caso nel caso considerando l’omicidio nel 1970 del giornalista Mauro De Mauro, proprio mentre raccoglieva materiali per il film del regista napoletano. Il nuovo libro di Giuseppe Oddo e Riccardo Antoniani (L’Italia nel petrolio, Feltrinelli) rievoca la vicenda del partigiano e imprenditore con particolari inediti come l’eventuale presenza in Sicilia, nei due giorni immediatamente precedenti l’attentato, del successore alla guida dell’Eni Eugenio Cefis.
Restando a Mattei, ce n’è uno globale e uno italiano: due volti di un progetto politico-imprenditoriale che ha collezionato ammiratori e nemici ostinati. Il Mattei globale si caratterizzò per tre innovazioni “sistemiche”. In primo luogo l’appoggio ai Paesi di nuova indipendenza per svincolare l’Italia dalle “Sette sorelle”, come ribattezzò le società anglo-americane che controllavano la quasi totalità delle esportazioni petrolifere mondiali. Corollario ne fu la “formula Mattei” con la quale l’Eni proponeva la creazione di joint venture partitarie ai governi dei Paesi esportatori (sperimentate per la prima volta in Egitto e Iran). Queste avrebbero permesso alle classi dirigenti locali di impadronirsi di competenze tecnologiche e imprenditoriali, venendo – parole di Mattei – “a disturbare mentalità e interessi ancorati”.
Mattei osò poi sabotare la logica della Guerra Fredda, siglando nel 1960 il primo accordo petrolifero fra un Paese occidentale e l’Urss. L’accordo fornì all’Italia il 20 per cento delle sue importazioni di petrolio a prezzi molto convenienti e inquietò gli ambienti Nato che presero a definire il Cane a sei zampe un “agente della commercializzazione di petrolio sovietico in Europa”. L’Eni sostenne anche la lotta di liberazione algerina, cercando di inaugurare un legame di tipo nuovo tra Europa e Africa in un territorio non soggetto alla tutela anglo-americana. Gli intricatissimi negoziati triangolari tra algerini, francesi ed italiani per il gas del Sahara erano in pieno svolgimento alla morte di Mattei. Meno note sono invece le proposte avanzate dall’Eni per “forme di controllo internazionale sul mercato petrolifero” con acquisti comuni europei per marginalizzare gli “intermediari” del cartello petrolifero.
Ricordato ancora oggi in molti Paesi Opec, Mattei fu definito dalla stampa americana un “business tycoon socialista”, dai servizi britannici “un pazzo”, e da Guido Carli “un ossesso, un invasato. Completamente posseduto dall’idea di affrancare l’Italia dalle compagnie petrolifere americane, pervaso di spirito anti-capitalistico”.
C’è poi il Mattei italiano. L’Eni ottenne nel ’53 una “riserva originaria” sull’estrazione di gas e petrolio della Val Padana. Questa “rendita metanifera” non tassata, stigmatizzata in una serie di articoli di Montanelli nel 1962 come fonte di corruzione e sperpero, le consentì di costruire una fitta rete di metanodotti, raffinerie, stazioni e servizi per gli automobilisti, di investire nella meccanica (Nuovo Pignone), nel tessile (Lanerossi) e nel petrolchimico. Come ricordava nel 1966 un accorato Sabino Cassese, Mattei sostenne “che i soggetti attivi nella politica economica internazionale dovessero essere responsabili nei confronti dei rispettivi Paesi” e incarnò “il ruolo dell’impresa pubblica in concorrenza (diminuzione di prezzo, ingresso in nuovi campi di attività) e quello dell’impresa pubblica nello sviluppo (localizzazione in aree sottosviluppate)”.
Gli autori de L’Italia nel petrolio dipingono a tinte assai fosche il cambio di direzione impresso da Cefis, prima vice e poi presidente dell’Eni tra il 1962 e il 1971. Cefis avrebbe fatto naufragare i negoziati con l’Algeria, riaffermando una sostanziale subordinazione alle “Sette sorelle”, la cui manifestazione più plateale fu l’accordo del 1965 per la fornitura da parte di Esso di gas naturale libico che poneva fine all’arrembaggio di Mattei all’oligopolio. D’altra parte, l’Eni negli anni 70 non smise di essere uno strumento della politica economica nazionale. Nel 1969 siglò accordi per la fornitura di gas sovietico a prezzi vantaggiosissimi, continuò ad investire nella chimica e nell’industrializzazione del Mezzogiorno, completò la “metanizzazione” della Penisola. All’inizio degli anni 80, sia pure a seguito di duri scontri tra l’Eni e il governo, venne anche inaugurato il metanodotto che portò il gas algerino in Italia. Eni, nonostante l’alto indebitamento, era nel 1992 la terza società petrolifera al mondo per margine operativo e la quinta per fatturato.
Più che a causa dell’avvicendamento con Cefis, l’azienda muta pelle con la trasformazione in Spa nel luglio 1992 e con la successiva quotazione in Borsa del 1995. L’obiettivo della “profittabilità” si sostituì definitivamente alla “funzione pubblica” del Cane a sei zampe. Il gas dell’Adriatico e quello russo, che nel ’92 generavano praticamente tutti i profitti dell’Eni, vennero spremuti per garantire dividendi agli azionisti e investimenti all’estero. Nel 2021 l’Eni ha distribuito 2,8 miliardi di euro in dividendi e buy-back (riacquisto di azioni proprie) a favore degli azionisti, oltre il 40% dei quali stranieri, e il suo amministratore delegato Claudio Descalzi ha ricevuto una remunerazione complessiva di 7,4 milioni (l’ultimo presidente dell’Eni ente pubblico percepiva uno stipendio pari a 300mila euro attuali). I principali Paesi in cui opera oggi Eni spa sono rimasti sostanzialmente gli stessi del 1992 (Algeria, Libia, Egitto, Nigeria, Angola, ex Urss), ma i rapporti coi governi locali, accantonata la formula politica e culturale inaugurata da Mattei, sono stati improntati a logiche puramente commerciali. Nel frattempo le famiglie italiane sono passate dal pagare le bollette del gas più basse della Comunità europea nel 1991, alla top five di quelle più salate dell’Ue.
Cosa farebbe Mattei oggi? Inventerebbe una nuova formula politica per negoziare con i Paesi esportatori prezzi e forniture stabili, anche attraverso consorzi di imprese europee? Impegnerebbe gli enormi profitti generati dall’aumento dei prezzi degli idrocarburi per investirli in tecnologie per produzione di energia da fonte rinnovabile e connesse infrastrutture? Si sarebbe avventurato a cooperare con la Cina, considerata “rivale sistemico” da Bruxelles, ma all’avanguardia nelle tecnologie, dal fotovoltaico alle batterie, legate alla transizione verde? Non lo sapremo mai. Quel che è certo è che a 60 anni dalla morte di Enrico Mattei, l’Eni di oggi gli deve praticamente tutto e gli assomiglia assai poco.

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Francesco Giubilei per il Giornale

Se Enrico Mattei fosse ancora in vita, non crederebbe ai propri occhi osservando la situazione energetica in cui si trova l’Italia tra caro bollette, rischio di razionamenti e assenza di una propria autonomia. Soprattutto il fondatore di Eni, scomparso il 27 ottobre 1962 a causa della caduta del suo aereo in seguito a un sabotaggio, rimarrebbe attonito per la mancanza di una prospettiva a medio lungo termine per il nostro Paese su un tema cruciale per l’interesse e la sicurezza nazionale come l’energia.
A distanza di sessant’anni dalla morte, colpiscono l’attualità della sua visione e la capacità di dar vita, in un momento storico molto complesso dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, a un colosso come l’Eni, determinante per rendere l’Italia una potenza industriale e portare la nostra nazione tra i grandi del pianeta. Secondo Alessandro Aresu, Mattei «non accettava l’idea che un popolo sconfitto dalla guerra fosse destinato a un ruolo subordinato, incapace di scelte politiche ed economiche autonome. Non sopportava che all’Italia fosse preclusa la grande organizzazione industriale che genera potere».
Non a caso lo stesso Mattei scriveva: «noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso di inferiorità che ci avevano insegnato, che gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno le capacità della grande organizzazione industriale. Ricordatevi, amici di altri Paesi: sono cose che hanno fatto credere a noi e che ora insegnano anche a voi. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio. Dovete avere fiducia in voi stessi, nelle vostre possibilità, nel vostro domani; dovete formarvelo da soli questo domani».
Tutta la sua attività è stata portata avanti promuovendo l’interesse nazionale italiano come scrive Nico Perrone, autore della biografia Enrico Mattei edita da Il Mulino: «Aveva a cuore soprattutto gli interessi del suo Paese è il riconoscimento che venne al presidente dell’Ente nazionale idrocarburi da un suo avversario, William R. Stott, vicepresidente esecutivo della Standard Oil Company of New Jersey, la maggiore società petrolifera del mondo».
Per raggiungere l’obiettivo di un’Italia forte sul piano economico e industriale, comprese la necessità di realizzare un’autonomia energetica sin dal ’45-’46 intuendo che per l’Italia il motore della ricostruzione sarebbe derivato dalla possibilità di avere energia in abbondanza e a costi competitivi. Occorreva perciò ottenere quanti più fornitori possibile e, pur mantenendo il posizionamento atlantico, riuscì a stringere accordi con paesi africani, mediorientali, con la Russia e la Cina. Proprio questa capacità di muoversi al di fuori delle alleanze occidentali e oltre la cortina di ferro, lo portò a numerosi attriti con gli Stati Uniti. Per mitigare gli effetti delle sue aperture terzomondiste e mantenere un legame con l’alleato americano, venne così coniata la nuova visione del neoatlantismo in cui l’Italia assunse il ruolo di «intermediario internazionale non richiesto».
Facendo sponda con la Democrazia cristiana, Mattei riuscì non solo a impedire la messa in liquidazione dell’Agip nel primo dopoguerra ma a realizzare una strategia per la produzione di petrolio italiano attraverso le perforazioni a cominciare dalla Val Padana. L’unico modo affinché l’Italia si affermasse come potenza industriale, poteva derivare a suo giudizio dalla realizzazione di una sovranità energetica. La scoperta di un giacimento di petrolio a Cortemaggiore in Emilia, il primo in Europa, ebbe un grande impatto anche da un punto di vista mediatico e contribuì a rendere più solido il ruolo dell’Eni nell’immaginario degli italiani, complice la celebre benzina Supercortemaggiore.
Un attivismo che non poteva essere giudicato positivamente dalle «Sette sorelle», le compagnie petrolifere americane, inglesi e anglo-olandesi unite in un cartello che controllava oltre il 90% delle riserve petrolifere al di fuori degli Stati Uniti da cui Mattei cercò di affrancarsi concependo l’Ente nazionale idrocarburi non come una semplice azienda ma come parte di un insieme più ampio sinergico al sistema paese.
Per lui l’Eni doveva essere un tassello fondamentale nella politica estera italiana: «noi crediamo nell’avvenire del nostro Paese; abbiamo fede nelle sue possibilità di miglioramento, nelle sue capacità di sviluppo e di progresso; sentiamo il dovere di lavorare, in tutta la misura delle nostre forze, per costruire giorno per giorno l’edificio della libertà e della giustizia in cui vogliamo vivere in pace e che soprattutto vogliamo preparare per le nuove generazioni».
Mattei immaginò l’Eni come una grande realtà energetica a sostegno dell’interesse nazionale italiano; per raggiungere questo obiettivo creò l’Agi, agenzia stampa di proprietà dell’azienda e fondò il quotidiano Il Giorno, due strumenti a servizio della rete internazionale che aveva saputo tessere. Tutta la sua attività è stata animata dalla volontà di superare quel «complesso di inferiorità nazionale» che troppo spesso ha rappresentato un tratto antropologico degli italiani precludendo al nostro Paese, specie in politica estera, spazi poi occupati da altri.
Secondo Francesco Cossiga «Mattei è l’ultimo italiano che tenta la sfida di rifare gli italiani», mentre Leonardo Giordano nel libro Enrico Mattei. Costruire la sovranità energetica: dal gattino impaurito al cane a sei zampe ricorda come Mattei si sia «inventato qualcosa che in Italia non abbiamo, la politica energetica». Una politica energetica che si è interrotta quel tragico 27 ottobre 1962 a Bascapè ma che oggi dobbiamo riscoprire e di cui non possiamo più fare a meno non solo ricordando ma attualizzando la lezione del padre dell’Eni. Al contrario, negli ultimi anni ci si è allontanati dai suoi insegnamenti illudendosi di poter dipendere solo dall’estero per la produzione di energia, dismettendo l’estrazione nazionale di gas e affidandoci eccessivamente a un unico fornitore, un errore che Mattei non avrebbe mai compiuto.
Oltre che un visionario, Mattei è stato un patriota e l’emblema di una storia italiana di successo; nato ad Acqualagna, un piccolo paese marchigiano, pur avendo raggiunto i vertici dello Stato, non ha mai dimenticato le sue origini come ebbe a dire poco prima della sua morte: «sono semplicemente un uomo che, di fronte alle necessità in cui si è venuta a trovare l’Italia, ha fatto tutto quello che era possibile per raggiungere gli attuali traguardi». La sua è stata prima di tutto una grande storia italiana.