Corriere della Sera, 26 ottobre 2022
Alda Merini, l’amica del sabato
Ci sono colpi di fulmine dell’anima, oltre che del cuore. E quelli fortunati sono altrettanto rari. Rarissimi, poi, quelli che si consolidano in un legame felice e duraturo. Praticamente unico è quello che ancora unisce, oltre il tempo e lo spazio, Alberto Casiraghy, eclettico scrittore, aforista, illustratore, tipografo ed editore, alla poetessa Alda Merini, scomparsa nel 2009. Per quasi vent’anni, a partire dal 1990, poco dopo il primo incontro, le anime gentili di Alberto e di Alda hanno scherzato e dialogato, senza quasi mai mancare al loro appuntamento, a Milano, ogni sabato mattina.
«Un’amicizia che mi ha condotto in un altro mondo, dove la realtà sembra inutile» la definisce ora lui stesso, che era appena quarantenne il giorno in cui decise di avvicinare quella dolce, bellicosa e imprevedibile poetessa, provata da 61 anni di vita turbolenta e da qualche profittatore. Lei, già molto famosa e ricercata, lo accolse guardinga, nella sua casa sui Navigli. Ascoltò la richiesta del giovane garbato e impudente: un aforisma, da pubblicare in venti o trenta copie per i tipi del Pulcinoelefante, di cui Casiraghy è l’immaginifico fondatore e stampatore. Una collana di piccoli, raffinati «librini» nata nel 1982, con la partecipazione di artisti come Enrico Baj e Ugo Nespolo. È una covata ormai di undicimila esemplari, e 1.500 sono stati concepiti sotto il segno di Alda Merini.
Un aforisma non si regala a chiunque, doveva aver pensato lei, che pure nella sua vita aveva distribuito a piene mani versi e pensieri. Il compenso era metà della tiratura. Quei volumetti stampati a ritmo quotidiano diventavano per la poetessa squattrinata moneta di scambio nella farmacia o dal panettiere sui Navigli. Con la mediazione di Vanni Scheiwiller, editore e amico di entrambi, si concluse infatti l’affare ma, soprattutto, si inaugurò una consuetudine felice. «Ogni sabato mattina prendevo il treno da Osnago per Milano e andavo a trovarla» scrive Casiraghy nell’aprire il piccolo scrigno finora segreto: cento pagine di poesie, dediche, riflessioni scelte tra le migliaia che l’amica del sabato improvvisava per lui o gli declamava al telefono a qualunque ora del giorno o della notte.
Ogni volta che ti vedo fiorire è il titolo della nuova raccolta di poesie inedite «dell’Alda» curata da Casiraghy per le edizioni Manni. È il risultato della selezione condotta dentro cinque scatoloni zeppi di fogli, appunti, disegni, lettere che, alla morte della poetessa, il fedele «trascrittore» ha consegnato alle eredi legittime, le figlie, e che certamente contengono ancora una scorta imponente di materiale da valutare e mai pubblicato prima: «Una miniera senza fondo» conferma Casiraghy, precisando però che, seppur privilegiato, non era il solo amico al quale Merini affidava il potente, incontenibile flusso dei propri pensieri perché finisse nero su bianco. Molto altro può ancora affiorare.
«Soltanto a me, dettava almeno 4 o 5 versi al giorno. Telefonava alle 6 del mattino e nemmeno chiedeva se stessi dormendo. Ordinava, prendi la penna e scrivi!, cominciando subito a dettare. Era sempre gioiosa e questo, in fondo, era un gioco tra di noi. Amo dire che la Merini era come Mozart: come loro ne nasce uno ogni tanto». Ma la sua presenza fisica non gli manca. Non tanto: «Sento che è dentro di me. Il giorno prima di partire per il Grande Viaggio mi dettò quest’ultima frase: quando non riesco/ a parlare/ vado a prendere/ la legna nel bosco/ e accendo/ le mie speranze». Ventiquattr’ore dopo se n’era già andata.
Chi pensava che sarebbe stata presto dimenticata, si sbagliava. A distanza di anni l’eco delle sue parole e delle straordinarie vicissitudini dentro e fuori dal manicomio corre online e sui social, seduce un pubblico giovane: «Alda Merini è anche su Tik Tok – aggiunge l’editrice Agnese Manni —. I suoi versi sembrano improvvisati, e lo erano, ma poi li rielaborava. Lo si capisce dalle correzioni che abbiamo trovato sugli originali».
L’ultima, ma non definitiva, raccolta riserva ampio spazio alle dediche intestate ai migliori amici, conoscenti, amanti, psichiatri, musicisti ed editori: Giulio Einaudi («… in fondo al tunnel della solitudine/ un frate sollecito e amoroso/ apriva le sacre mense del sapere/ a coloro che non avevano cibo»), Roberto Cerati («Lento il tempo logorerà/ la tua immagine/ dove la rosa non è fiorita…»), ma anche Carlo Maria Giulini («Diventava la musica un vetro di Murano/ nelle tue dolci dita che trattavano il suono…») e, naturalmente, lo stesso Alberto («Prendete Alberto C./ mettetelo sotto una bancarella/ riempitelo di pop corn/ suonategli la cornamusa/ lasciategli credere che sia Natale/ e mostrategli la befana Alda Merini»).
Casiraghy, l’Alberto in questione, sorride: «Mi prendeva amorevolmente in giro e qualche volta mi sgridava», come una madre con il proprio figlio. Era un’amicizia nutrita di affetto, stima, fiducia e telefonate, ma soprattutto di quell’appuntamento sui Navigli, ogni sabato, annaffiato da tè bollente e Coca-Cola gelata: «Alberto è un resoconto speciale, a volte lo penso come un omino di burro intento a impastare formelle e dolcetti per la fantasia» scrisse Merini nel suo libro La pazza della porta accanto (Bompiani).
E sembra di fragrante marzapane anche la piccola Biancaneve che Casiraghy conserva nella sua tipografia. Per lui quella statuetta è l’oggetto più prezioso che gli è rimasto di Alda Merini: «Mi disse: tienilo sempre vicino e vedrai che stamperai sempre bene. Così ho fatto, e aveva ragione lei». Una volta di più.