La Stampa, 25 ottobre 2022
Giacomo Poretti: Non ne posso più di Tafazzi
Per anni sono stati un nome unico, AldoGiovannieGiacomo. Poi sono diventati grandi: e sono usciti di casa, ciascuno alla ricerca della sua strada. Direzioni molto diverse: Aldo si è dato alla regia e Giovanni alla scrittura e alla botanica (pur con qualche partecipazione cinematografica). Giacomo ha scelto il teatro, in cui si è immerso totalmente. Una scelta che definisce «densa di soddisfazioni», ma anche «faticosa, impegnativa e altamente rischiosa». Da una parte – quella più facile – scrive e interpreta suoi testi (scritti e talvolta interpretati con la moglie Daniela Cristofori). Dall’altra – ciò che più lo esalta e lo spaventa – ha intrapreso l’impervia via del capocomico: con gli amici Luca Doninelli e Gabriele Allevi ha preso in gestione a Milano il teatro Oscar, sala parrocchiale di mezza periferia con un illustre passato riportata a nuova vita: proprie produzioni e una stagione teatrale, che ha preso le mosse da pochi giorni a partire proprio dalle repliche acchiappa pubblico dei suoi primi lavori da solista, Fare un’anima e Chiedimi se sono di turno. In estate è salito su un’Ape e il teatro è andato a portarlo in giro per piazze e chiostri (e pure sul tetto del Duomo). Ora con la moglie la ha iniziato il «tour (de force)» con il loro Funeral Home.
Perché tour de force?
«Perché anche se sarò lontano dovrò tornare a Milano per alcune date in teatro. Perché quest’anno non ho quasi fatto vacanze causa riprese de Il più bel giorno della nostra vita: un set più faticoso del solito tra Covid, caldo equatoriale, trasferte (ci siamo spostati tantissimo, anche se la principale è sul Lago di Como). E a dicembre ci saranno ancora teatro è la promozione del film».
Come mai il teatro?
«È sempre stato il grande amore della mia vita. Per un attore è il luogo perfetto. Tv e cinema ti danno la notorietà (e i soldi), il teatro paura e soddisfazioni. Su un palco non puoi nasconderti. Solo all’inizio, quando mi esibivo nei cabaret di provincia, provavo le stesse emozioni: ero nessuno e il pubblico non perdonava nulla. Anche ora: ogni volta è un brivido».
Questo per quanto riguarda il Poretti attore, ma il direttore di teatro?
«Superati i 60 con questi due vecchi amici che sono Luca e Gabriele è scattato il desiderio di avere un luogo nostro, dove fare ciò che ci piace e dire le cose che pensiamo. Un nostro luogo del cuore, insomma».
Funeral Home affronta il tema della morte: una bella sfida per chi vuole far ridere.
«La nostra società l’ha accantonata e la rifiuta in nome di una presunta eterna giovinezza. Affrontare il tema mi è sembrato una bella sfida. Questi tempi così difficili – prima la pandemia e poi la guerra – ci hanno costretti a pensarci e a parlarne di più, anche se poi l’attualità spesso fagocita e banalizza. La chiave comica aiuta ad accettare che se ne parli. E anch’io, così, un po’ elaboro».
Lei, Aldo e Giovanni avete lavorato molto a vostri progetti. Come avete trovato tempo per il film?
«Be’, dovevamo farlo. Poi in realtà ciascuno di noi ci pensa sempre un po’ agli altri, e finisce con l’accantonare idee. Lo spunto da cui parte un film non è mai di uno solo, ma è un cumulo di cose che un giorno "maturano". Ci si vede, se ne parla e un pensiero tira l’altro. Ed ecco il film. È il vantaggio di avere una certa età e tanta sintonia».
Dopo tanti anni insieme, come vi vedete?
«Più vecchietti. In trent’anni siamo cambiati fisicamente, ma non come testa. Ci divertiamo sempre a stare insieme».
Guardandovi indietro quindi?
«Direi che siamo soddisfatti di quello che abbiamo fatto e stiamo facendo. Abbiamo fatto tanto: siamo stati fortunati. Chissà se oggi potrebbe accaderci di nuovo così... Per dire, ai tempi c’era una rete di piccoli locali dove ci si poteva esibire e ci si incrociava. Noi ci siamo incontrati proprio in posti così, Aldo e Giovanni già insieme e io da solo. Oggi quelle passerelle mancano (e manca quella scuola). C’è il web dove farsi conoscere, ma così non ci si incontra più. Ecco perché ci teniamo tanto ad aprire una seconda sala all’Oscar: per dare ai giovani attori, a piccole compagnie amatoriali, uno spazio dove esibirsi (anche se per ora non pensiamo allo stand up)».
Quest’estate è tornato alla ribalta Tafazzi, rievocato per via della autolesionistica crisi di governo. Cosa ne pensa?
«Che non ne posso più. È stato un gran personaggio e una bella idea, ma ormai è diventato un luogo comune applicato a qualsiasi ambito dove ci si fa male da soli».
Lei pensa che ci si sia fatti male da soli?
«Sono un pessimo interprete delle vicende della politica italiana. Prima delle elezioni stavamo girando e inevitabilmente ne abbiamo parlato: eravamo tutti molto in imbarazzo su come votare...».
Non è preoccupato, quindi?
«A questo punto direi che sono soprattutto curioso di vedere cosa accadrà. Preoccupato lo sono piuttosto per l’Inter che sta vivendo un’altra stagione difficile. Anche qui, però: sono un tifoso ma fatalista. Se perde mi spiace, ma me ne faccio una ragione. Mai mi scaglierei contro la squadra del cuore».