La Stampa, 25 ottobre 2022
Sale vuote, eppure si fanno sempre più film
«In Italia si producono film quasi ai livelli degli anni’60, più del doppio degli anni scorsi, ed erano già troppi. Qui ne è arrivata la maggior parte e vi assicuro che abbiamo visto una quantità di cose orribili». Alberto Barbera è una persona notoriamente prudente, lontana dalla provocazione come genere letterario. Quando la scorsa estate – in occasione della presentazione della nuova edizione della Mostra di Venezia – se ne uscì con questo giudizio, le sue parole sono riecheggiate a lungo fra le pareti dei palazzi del cinema.
Indecisi se offendersi per il dito o per la luna, molti si sono appellati all’eterna soggettività dei concetti di bello e brutto. Nessuno si è interrogato (quantomeno pubblicamente) sull’altra metà del discorso, quella che citava numeri impossibili da smentire. Perché negli ultimi dodici anni i titoli prodotti in Italia sono davvero più che triplicati: nel 2010 erano 141, nel 2021 sono stati 481. Di questi ultimi, in sala ne sono usciti solo 153, pari al 43% dei titoli usciti (ma soltanto al 21% degli incassi). Proporzione inversa per i film americani: con soli 75 titoli (il 21% del totale) si sono portati via il 58% degli incassi complessivi.
Perché allora in Italia si produce così tanto se poi si incassa così poco, a volte senza nemmeno uscire in sala? La risposta è nel sistema di incentivi pubblici, fondi e crediti d’imposta, che nel nostro Paese consentono all’opera di ripagarsi prima ancora di uscire. Questo fa sì che sul cinema italiano a rischiare del suo sia rimasto soltanto lo Stato, mentre per il produttore i film è sufficiente girarli. L’esito del botteghino è del tutto irrilevante, come dimostrano i vari titoli che hanno incassato pochino e di cui pure sono stati subito messi in cantiere i sequel.
La crisi del nostro cinema s’incrocia inesorabilmente con la crisi delle sale cinematografiche, che da anni registrano numeri da grande depressione (senza new deal all’orizzonte). Gli interessi incrociati degli operatori di mercato hanno creato uno stallo alla messicana che la nostra deregolamentazione normativa (unica in Europa) non contribuisce a risolvere. Fortunatamente, sono sempre di più gli autori che si stanno pronunciando contro questa situazione. L’ultimo in ordine di tempo (ma non è la prima volta) è stato Nanni Moretti, alla Festa del Cinema di Roma, per la presentazione di Il colibrì di cui è interprete. Mentre il film di Francesca Archibugi esordisce balzando in vetta al box office, Moretti osserva: «In altri paesi come la Francia c’è una finestra di uscita tra i cinema e le piattaforme, una distanza di quindici mesi, mentre in Italia questo periodo è pari a zero. Ci vuole un clima e delle leggi che aiutino i film in sala».
Ormai la grave sofferenza dei nostri cinema è conclamata. È vero che nei grandi Paesi europei tra il 2019 e il 2021 (a cavallo della pandemia) si sono registrati cali di pubblico che vanno dal –54% della Francia al –64% della Germania. Quello italiano è stato però il mercato più in sofferenza di tutti: –75%. Inoltre, passato il 2020, l’anno più nero dell’emergenza Covid, nel 2021 i numeri sono migliorati per tutti, dal +10% della Germania al +68% della Gran Bretagna. Per tutti tranne che per l’Italia, dove l’emorragia di spettatori ha registrato un ulteriore –12%.
Dal 2010 al 2019 in Italia gli incassi sono sempre stati costanti, tra i 650 e i 750 milioni di euro. Nel 2020 sono scesi a 183, nel 2021 a 170. Come detto, di queste cifre il cinema italiano rappresenta una quota pari a circa il 22%. Ogni tanto sono capitati anni più rosei (come il 2011, il 2013 e il 2016), in cui la percentuale d’incidenza degli incassi dei nostri film è aumentata. Tutte le volte si è cantata la rinascita del cinema italiano, glissando sul fatto che quei picchi coincidevano regolarmente con l’uscita dei film di Checco Zalone, la più classica delle rondini che non fanno primavera.
La pioggia di denaro pubblico, che incentiva la produzione di film che in larga parte nessuno vedrà mai, non contribuisce nemmeno alla qualità del prodotto. Innanzitutto perché – per andare sul sicuro con i finanziamenti – i produttori scelgono come interpreti sempre i soliti noti, e questo lascia al palo la nuova generazione di attori emergenti. Quella stessa logica del volto famoso ha spinto ultimamente le produzioni a imbarcare nel cast anche personalità televisive e cantanti, anche quelle in grado di «fare punteggio» quando si tratta di accedere ai sostegni pubblici.
Tra i criteri richiesti dai bandi ci sono poi i temi sociali e civili, che gli sceneggiatori finiscono per infilare dappertutto. Sono i famosi film Mibact (oggi Mic), da tempo oggetto di ironie. Quelli a cui si riferiva Quentin Tarantino già nel lontano 2007, quando diceva: «Le pellicole italiane che ho visto negli ultimi tre anni sembrano tutte uguali. Non fanno che parlare di: ragazzo che cresce, ragazza che cresce, coppia in crisi, genitori, vacanze per minorati mentali. Che cos’è successo? Ho amato così tanto il cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta e alcuni film degli anni Ottanta, e ora sento che è tutto finito. Una vera tragedia». Non l’aveva toccata piano, ma aveva centrato il punto prima di tutti.