la Repubblica, 25 ottobre 2022
I cani nella letteratura
Si sa: i cani abbaiano alla luna. E se ascoltiamo i miti, antichi e meno antichi, pare che in cielo ci abitino davvero. C’è un cane insieme all’uomo che cammina sulla luna con un fascio di rovi sotto al braccio, dice Shakespeare nella Tempesta e nel Sogno di una notte di mezza estate. E un cane vedevano Greci e Caldei nelle stelle che apparivano all’orizzonte nel furore dell’estate, quando tutto bruciava sotto la canicola. Era lui, Sirio, la stella-cane, quella che guidava e apriva il cammino, mentre le altre le tenevano dietro formando costellazioni in cui altri cani si lanciavano alla rincorsa di volpi e di lepri, facendo dannare i loro padroni immortali. E ancora, un cane del deserto, Anubi, accompagnava gli Egizi nel transito verso le stelle.
Quanti miti collegano i cani, e con loro lupi, sciacalli, coyote, a una dimensione che è insieme intima e cosmica. Del resto, a dispetto del nome canis lupus familiaris, i cani sono così misteriosi che davvero non sembrano creature di questo mondo. Da dove, se non da un altrove indefinibile, possono venire quel loro olfatto proverbiale che gli permette perfino di diagnosticare i tumori, il saper ritrovare la strada a migliaia di chilometri di distanza, la memoria dell’unione con i loro familiari umani, la resistenza alle intemperie e alla fame, e soprattutto quella capacità ostinata di amare, di amare indiscriminatamente, di amare perfino Hitler? La verità però è che i cani non potrebbero mai essere venuti da un altro pianeta. I cani, come noi, sono di questo mondo, e anzi: sono del nostro mondo. Sono i nostri compagni, perché ci accompagnano da quando né noi né loro eravamo ancora quello che siamo. E ci hanno resi umani nello stesso momento in cui, da lupi che erano, li abbiamo resi cani. È avvenuto, sembra, circa 50 mila anni fa, ma alcuni si spingono addirittura a dire 135 mila. L’homo sapiens era appena nato, e grazie a loro ha acquistato i tratti che ha oggi. Il cane, dice lo zoo-antropologo Roberto Marchesini, è l’amico d’infanzia dell’umanità.
E come con gli amici d’infanzia, con i cani giochiamo e danziamo, in coreografie che, oltre che biologiche, sono anche atletiche. Sono atletici i giochi delle prove di agilità: un coordinamento in cui il cane e l’umano pensano – e gioiscono – come con una sola mente e un solocorpo. Perché, se fatto bene, il lavoro dell’addestramento è qualcosa che dà soddisfazione a entrambi. Ne era convinto anche Anton ?ecov, che in quel piccolo capolavoro di letteratura per bambini intitolato Kaštanka racconta la storia di un cagnolino dal muso di volpe diviso tra due vite: una domestica e dura, ma profumata della colla e dei trucioli di una falegnameria, e un’altra in un circo in cui a ogni esercizio ben riuscito il suo nuovo padrone gli dice soddisfatto: «Che talento! Che talento!». Ma l’ammaestramento, come il gioco, ha le sue regole: e la prima è il rispetto tra ammaestratori e ammaestrati. Lo sa bene Daniel Pennac, grande scrittore di cani, che ne parla in Abbaiare stanca (titolo italiano di Cabot- Caboche, “cane capoccia”). Ognuno rimanga se stesso, dice, nel rispetto delle differenze: perché in fondo «il rispetto delle differenze è la legge stessa dell’amicizia». E in amicizia, ricorda ancora Pennac, coi cani condividiamo tutti gli spazi terrestri. Il loro habitat naturale, infatti, è l’ecosistema urbano, perché «la città è il cibo preferito dei cani»: epigrafe memorabile con cui, ne La fata Carabina, lo scrittore francese si appresta a mandare Benjamin Malaussène a spasso per Belleville insieme a Julius, il suo cane epilettico e puzzolente.
Insomma, i cani stanno bene con noi sulla terra. Il che però non esclude che tra le stelle non ci siano stati davvero. E questa no, non è una bella storia. Accadde con Laika, la cagnetta lanciata in orbita dai sovietici nel novembre 1957, in piena guerra fredda. Giovane incrocio tra terrier e husky, Laika fu accalappiata per strada. Era libera, docile, scodinzolante. Ed era piccola: sei chili di peso. Bardata da astronauta e collegata a un ciarpame di fili e sensori, fu infilata in una capsula angusta e climatizzata male, non programmata per tornare. La sua fu una morte crudele, e in più completamente inutile: lo ammisero gli stessi scienziati russi. E sconcerta la schizofrenia del legame tra un cane e un addestratore astronauta, che accudisce e prepara il suo animale, ben sapendo che dovrà lasciarlo nell’incomprensibilità sconfinata di un abbandono spaziale. Non di un’autostrada o di un bosco, e nemmeno di un cassonetto: da cui, con un colpo di coda del destino, ti puoi ancora salvare. Ma dello spazio. Lì certo non te la cavi con un colpo di coda.
Un’ingiustizia come quella perpetrata nei confronti di Laika è «più ingiusta di ogni altra cosa ingiusta», scrive Anna Maria Ortese. Ed era inevitabile che anche lei, che chiamava gli animali «piccole, antiche persone», ci chiedesse di guardare a Laika e a tutti i cani che, in un laboratorio o in una navicella, con i loro occhi «fissano una finestra chiamando Dio, a loro modo». «Torna indietro, Laika!» scrive Ortese. E di fatto, Laika è rimasta con noi, perché è diventata un simbolo. Qualche anno fa, Ascanio Celestini ha intitolato Laika una pièce teatrale che accomuna tutte le vittime che non ci fa piacere vedere. Laika, dice, è un cane e un migrante, una vecchia e un malato, è un povero cristo che muore e non sa perché.
Però, in questi viaggi tra simboli e anime viventi, a volte sono proprio i cani a portare gli umani tra le stelle. Non per lasciarli lì, però, bensì per ricongiungerli alla terra, con amore. È quanto succede nell’Assemblea degli animali, la favola selvaggia di Filelfo, dove alla fine del racconto il cane MoMo, nella sua nuova forma umano-canina, guida tutte le altre creature nell’abbraccio zoo-cosmico delle costellazioni. Ed è il caso di dire che, tra le innumerevoli presenze animali, è proprio MoMo, il cane, il vero protagonista del racconto. Lo è per la storia che vive: una simbiosi totale di emozioni con il suo compagno umano, che ama al punto da non sopravvivergli, perché «nessun cane dovrebbe sopravvivere al padrone». E per la funzione che ha: tenere insieme, come un mastice, gli intrecci delle storie e delle parentele dimenticate, che legano la nostra cultura alla nostra natura. Ha il corpo di uomo e la testa di cane, MoMo. E allora, se ricordare è letteralmente un riportare le cose al cuore (in latino cor, cordis), forse non ci farebbe male imparare a pensare come pensano i cani. Che, con quella memoria che passa dalle cellule all’anima, ci guidano nelle notti senzaluna di questi tempi incerti.