Corriere della Sera, 25 ottobre 2022
Emilio Gentile parla della Marcia su Roma
Il professor Emilio Gentile ha dedicato tutta la vita allo studio del fascismo. A lui chiedo di dirci, cento anni dopo, quanto la marcia su Roma fu prodotta dalla volontà del fascismo e quanto dalla crisi dello Stato liberale.
«La marcia su Roma più che a Mussolini fu dovuta alla decisione di Michele Bianchi. Va ridimensionato il ruolo di Mussolini nella decisione finale di esigere, con il ricatto dell’insurrezione, non una partecipazione dei fascisti al governo con un vecchio presidente del Consiglio liberale, ma la guida del governo affidata a lui stesso. Mussolini stava negoziando separatamente e segretamente con Giolitti. L’obiettivo era ottenere un governo con cinque o sei ministri fascisti nei dicasteri chiave. Non prevedeva affatto l’assunzione personale del potere. È il Partito fascista, tramite la personalità del suo segretario generale Bianchi, che dalla fine del 1921 quando si costituisce, fino al 26 ottobre del 1922, spinge la macchina squadrista ad una insurrezione che doveva ricattare il governo. È chiaro che tutto questo è reso alla fine possibile dall’incapacità del governo liberale di far fronte, ormai da due anni, alla costituzione di un partito milizia che spadroneggiava con metodi dittatoriali e arbitrari in gran parte del Paese. Si succedono freneticamente governi debolissimi. Certamente questa fu una causa del tracollo della democrazia».
Quanto contò l’esito della guerra nel generare il clima del 28 ottobre?
«Senza la Grande guerra non ci sarebbe stato probabilmente il fascismo. Non si può dire che la guerra abbia inevitabilmente generato il fascismo, ma il fascismo ha le sue radici nella guerra, nell’esperienza della guerra, nel mito della guerra. Pensiamo ai politici che si sfidano, proprio nelle giornate di ottobre. Il più giovane dei vecchi presidenti del Consiglio era Nitti che aveva 58 anni, i più anziani dei fascisti che contrattano con questi presidenti del Consiglio sono Mussolini e Bianchi che hanno 39 anni. La guerra è uno spartiacque. Incide in due modi: nel creare il mito del fascismo come creatura che rivendica la vittoria dopo l’interventismo e il mito della giovinezza che rivendica il diritto a comandare in un Paese che aveva avuto presidenti del Consiglio molto anziani e assolutamente incapaci di capire sia l’interventismo, sia la guerra, sia il conflitto del dopoguerra».
Mussolini usava lo squadrismo per favorire una soluzione di tipo politico?
«Esatto. Lui se ne serviva ma non era disposto a concedere allo squadrismo iniziativa politica. Ma lo squadrismo non era solo un fenomeno di violenza manovale, era un fenomeno politico, che poi diventò l’essenza del fascismo, anche dopo. Il conflitto di Mussolini con gli squadristi inizia con il patto di pacificazione, quando gli squadristi addirittura lo chiamano traditore: ha tradito il socialismo nel 1914 e oggi, con il patto di pacificazione, tradisce il fascismo. Gli squadristi si rivolsero così a D’Annunzio per averlo come guida. Mussolini nel luglio del 1921 coltiva il progetto di un partito laburista per i ceti medi che avrebbe dovuto comporre una sorta di coalizione parlamentare fra i partiti di massa con i socialisti riformisti e con i popolari. E a questo mirava il patto di pacificazione. Sono gli squadristi che fanno saltare tutto. Il Partito fascista nasce fin dall’inizio come un partito milizia e tale rimarrà, condizionando Mussolini fino al 1926».
Si può dire che la marcia su Roma l’abbia guidata Bianchi più di Mussolini?
«Secondo me sì. Nel mio libro E fu subito regime cito due lettere, una del 10 giugno 1924, il giorno stesso del delitto Matteotti, quando Bianchi teme di essere liquidato da Mussolini, come era successo a Rossi, a De Bono, o a Balbo, e gli scrive dicendogli “ricorda che la marcia su Roma non sarebbe stata possibile se nell’agosto del 1922 il fascismo non avesse stroncato lo sciopero legalitario imponendo per mia iniziativa, soltanto per mia iniziativa contro il difforme parere del vecchio gruppo parlamentare e le tue strapazzate all’Hotel Savoia contro il mio ‘colpo di testa’, l’ultimatum delle 48 ore; ricorda che prendendomi del matto dai saggi che pontificavano di politica a Montecitorio alla vigilia della marcia su Roma lanciavo per primo – 26 ottobre 1922 – l’idea di un governo Mussolini”. Penso che sia ora di smetterla con il considerare Bianchi una sorta di figura minore. Perché tutto ciò che è stato il fascismo, anche dopo il 1922, è largamente dovuto a Michele Bianchi, segretario del partito, e agli squadristi che appoggiavano la sua iniziativa insurrezionale».
Quale fu l’errore della sinistra?
«Gli errori cominciarono dalla pretesa di mobilitare le masse per una rivoluzione bolscevica che non erano in grado di compiere perché le masse non erano affatto bolsceviche. Le masse maggiormente organizzate, oltre un milione e mezzo, erano della Confederazione generale del lavoro, guidata dai riformisti. Ci fu una vera e propria dispersione della enorme forza accumulata in trent’anni. Lo statuto del Psi dell’ottobre 1919, che introdusse la conquista violenta del potere per instaurare la dittatura del proletariato, cacciò questa enorme forza politica in un vicolo cieco. Nell’ottobre del 1920 la fine dell’occupazione delle fabbriche diede il colpo mortale. Il secondo motivo fu l’odio profondo che si generò tra il Partito socialista e il neonato Partito comunista, tanto che nelle elezioni del maggio del 1921 il manifesto elettorale del Partito comunista incitava il proletariato a passare sul cadavere del Partito socialista. Terzo elemento fu l’espulsione dei riformisti dal Partito socialista massimalista. Tutto questo produce il tragico paradosso di uno schieramento che rappresenta il primo partito in Parlamento e controlla i comuni in tutte le regioni più modernizzate d’Italia che, per effetto di divisioni e scissioni, si frantuma progressivamente. Fino poi a sottovalutare completamente il fascismo. Dopo la grande adunata di quarantamila fascisti a Napoli, il 24 ottobre 1922, il titolo de “L’Ordine nuovo” giornale comunista è: La fine della farsa. Il giorno prima della marcia su Roma, lo stesso giornale pubblica un articolo: Massimalismo fascista, in cui preannuncia la ormai prossima disgregazione del fascismo. La vittoria del fascismo è in larghissima parte conseguenza della totale incapacità della principale forza politica italiana di saper cogliere il momento per realizzare sicuramente una rivoluzione democratica, cosa che le avrebbe consentito il successo dei socialisti e dei popolari alle elezioni del 1919».
Il re è nel passaggio della dichiarazione dello stato d’assedio una figura molto controversa: cambia posizione sullo stato d’assedio e poi conferisce l’incarico a Mussolini, del quale condividerà le scelte più tragiche.
«Considero il re la peggiore sciagura che ha avuto l’Italia, a partire dall’incarico a Mussolini. Ma devo giustificare il comportamento di Vittorio Emanuele III, storicamente. Lui, la sera del 27 ottobre, pareva deciso ad usare qualsiasi mezzo per porre fine a un’insurrezione di bande armate, tra l’altro con a capo un ex socialista internazionalista che fino ad un anno prima aveva auspicato la Repubblica. Però, dopo aver accettato lo stato d’assedio, si rende conto che a proclamarlo è un governo dimissionario, quindi privo ormai di potere, guidato da un uomo, come Facta, assolutamente incapace di assumere iniziative decise e rischiose. Nella decisione finale del re di non firmare lo stato d’assedio pesa il fatto che tutti i suoi ex presidenti del Consiglio: Giolitti, Nitti, Salandra, Orlando, in realtà trattavano con Mussolini. E sin dal 1921 – quando, alle elezioni di maggio, Giolitti favorisce l’ingresso di trentacinque deputati fascisti in Parlamento facendoli presentare nei suoi Blocchi nazionali – si sosteneva pubblicamente che il fascismo non fosse un problema di polizia, ma un problema politico e che non bisognava usare la forza. C’era l’illusione che, portando Mussolini al governo, la banda di giovani scapestrati si sarebbe dissolta e Mussolini stesso si sarebbe addomesticato a seguire le linee del governo costituzionale. Io credo che il re abbia fatto questo ragionamento: se tutti sono contrari all’uso della forza, perché devo assumere io il compito di dichiarare uno stato d’assedio per il quale perfino i generali non garantiscono la totale obbedienza dell’esercito? Secondo me tutti i disastri degli anni del fascismo sono principalmente dovuti al re, perché era il capo dello Stato e poteva e doveva opporsi alla sistematica demolizione dello Stato liberale. Un capo dello Stato che firma tutte le decisioni del governo fascista, comprese le leggi razziali e la guerra, è responsabile di tutto il fascismo. Ma al momento della marcia su Roma, penso che lui abbia fatto quello che tutti, senza volerlo dire, volevano che facesse».
Il suo libro del 2012 si intitola «E fu subito regime». Dal 28 ottobre cambia la natura della nazione…
«Un partito armato è geneticamente incompatibile con un regime liberale. Fu un’illusione ritenere che l’aspetto militare e l’imposizione dittatoriale dello squadrismo in gran parte dell’Italia del Nord e del Centro non fossero l’essenza del fascismo stesso. Mussolini è chiaro: lo Stato fascista non penserà di lasciare la libertà ai propri nemici come ha fatto lo Stato liberale. No, lo Stato fascista dividerà gli italiani in tre categorie: gli italiani indifferenti andranno lasciati a casa loro, gli italiani simpatizzanti potranno circolare e gli antifascisti, i nemici, quelli non potranno essere tollerati. Ed è quello che il fascismo comincia a fare. Il 31 ottobre, con Mussolini a capo del governo, ci fu una vera e propria caccia all’antifascista a Roma. Nel dicembre, gli squadristi torinesi uccisero decine di comunisti o presunti tali, e i responsabili vennero tutti amnistiati, perché avevano commesso “atti di violenza per fini nazionali”. Luigi Salvatorelli, Amendola e Sturzo avvertono per primi l’impossibilità di assorbire un partito milizia all’interno di un sistema costituzionale, specialmente dopo che lo squadrismo stesso diventa una milizia legalizzata agli ordini del capo del governo».
Quale fu la natura del consenso che accompagnò il fascismo?
«Mussolini nel marzo del 1923 pubblica un articolo, Forza e consenso, in cui dice molto chiaramente “a noi fa piacere avere il consenso ma, se non c’è, noi abbiamo la forza”. Per tutto il ventennio successivo il fascismo sicuramente fu accettato dagli italiani e in larghissima parte gli italiani parteciparono con entusiasmo a tutto ciò che rappresentava esteriormente la forza del fascismo, come la potenza dell’Italia nel mondo. Lo dimostra soprattutto il periodo della guerra d’Etiopia quando persino Benedetto Croce e Vittorio Emanuele Orlando, non in nome del fascismo, ma del patriottismo, furono solidali con l’Italia in guerra. È innegabile che questo fu lo spirito di quel tempo. Basta leggere i rapporti che mandavano i comunisti clandestini, in cui si diceva che ormai il fascismo aveva esteso l’influenza della sua ideologia anche sulle masse operaie, specialmente sui giovani. Ma il fascismo era soprattutto una fabbrica dell’obbedienza. I dopolavoro, le manifestazioni e le organizzazioni del regime sono un modo di costruire l’obbedienza, non il consenso. Mussolini non lo ricercava, tanto è vero che dal 1936 in poi, quanto più si accorge che sta perdendo consenso con le sue avventure militari, tanto più insiste. Mussolini odia il popolo italiano che si è rivelato incapace di diventare quel grande popolo e quella razza suprema che lui voleva. Il disprezzo di Mussolini, pubblicamente dichiarato nei confronti del popolo italiano durante tutta la guerra e poi nelle lettere alla sua amante durante la Repubblica sociale, è qualcosa di mostruoso, che neanche Hitler ha espresso nei confronti dei tedeschi con la stessa ferocia e cattiveria. Il regime non cercava il consenso, voleva solo obbedienza entusiastica. C’è una bellissima frase di Joseph Roth che venne in Italia alla fine degli anni Venti: “In Italia l’entusiasmo è obbligatorio”. È questa la formula più precisa di ciò che si intende per consenso in un regime totalitario».
Lei come spiegherebbe ad un ragazzo che nel nostro grande Paese è capitato che il capo del governo nel 1925 abbia potuto impunemente rivendicare in Parlamento l’assassinio di un leader dell’opposizione?
«Gli direi di guardare un esempio ancora di più madornale e più scioccante, quello della Germania. Come mai la Germania, che era un Paese colto, progredito, leader nel campo della scienza e del pensiero razionale, manda al potere con il proprio voto un fanatico che la condurrà alla tragedia? Purtroppo è la dimostrazione che persino i Paesi che hanno molta cultura ma sono dominati da passioni mitiche, possono in qualsiasi momento prendere una strada che non era quella alla quale sembravano destinati. Ciò che è successo con l’occupazione del Campidoglio di Washington ha dimostrato che neanche gli Stati Uniti sono esenti da questo pericolo. Non penso che essi diventino fascisti, lei sa che sono contrario all’uso estensivo del termine fascismo al di fuori dell’epoca storica e del neofascismo. Il problema è che non esiste in nessun Paese, per quanto antiche siano le sue tradizioni democratiche, la possibilità di prevenire, in momenti di crisi, l’esplosione di una passionalità di massa che viene utilizzata strumentalmente per cambi di sistema e riduzione delle libertà. E siccome l’amore non si può produrre artificialmente, ma l’odio sì, è più facile creare l’odio che l’amore per la democrazia».