Corriere della Sera, 25 ottobre 2022
Biografia di Daniele Adani raccontata da lui stesso
Metà anni 80, spogliatoio dei Giovanissimi del Modena. Un compagno chiede all’altro cosa vuol fare da grande. Lui risponde «il calciatore». L’amico lo incalza, disincantato: «Ma perché, tu credi davvero di riuscirci?».
E allora lei, Lele Adani, cosa gli ha risposto?
«Non siamo forse qui per questo?».
Crederci sempre, fa la differenza?
«Io non avevo piano B, davo tutto per giocare a calcio».
Era un sognatore?
«Avevo un sogno, legato a quello che sentivo nel cuore. Ma ero anche molto pratico e sapevo che non mi sarebbe arrivato nulla per niente. Un atteggiamento verso la vita che ho ereditato da mio padre artigiano e da mia madre, operaia».
Tanti si chiedono se lei «ci è o ci fa». I giovani sentono prima degli adulti che è «uno vero»?
«Credo di sì e del resto io mi sento come loro, perché ero anch’io così, senza idoli o esempi. Mi approcciavo al calcio con tutta la purezza e la devozione verso quella magia. Loro sentono come tu tratti la materia e non puoi deluderli. Danno un gran valore all’attenzione che gli dai anche in uno scambio di battute per strada. E questo seguito va rispettato, è una grande responsabilità, che sento molto».
Ci sono momenti in cui la sente maggiormente?
«Ricevo messaggi di ogni tipo: persone che parlano dei loro problemi, sul lavoro, in famiglia, di salute. O chiedono consigli, aiuto. È tutto profondamente umano e l’unico dispiacere è non riuscire a rispondere a tutti. Ma se posso interagisco sempre».
Com’era da ragazzo a San Martino in Rio?
«Totalmente appassionato e curioso di tutto quello che avevo attorno. Non avrei mai accettato un no come risposta alla mia passione, piuttosto mi sarei ammazzato. Anche da giocatore chiedevo molte cose, con gran rispetto. E cercavo di ascoltare tanto: credo che questo nuovo mestiere di comunicatore nasca proprio dalla capacità di ascoltare».
Il territorio dove è nato che formazione le ha dato?
«Siamo contadini della bassa reggiana, gente di sinistra che lavorava e credeva nei valori della politica di una volta, che mio padre vedeva in Berlinguer: ricordo quando apriva il frigo e diceva c’è “troppa roba”. Ogni cosa bisognava conquistarsela ed è una lezione che mi è rimasta dentro: ti devi meritare tutto».
I calciatori sono meglio di come pensa la gente?
«Credo che un calciatore, all’interno di un percorso umano non ancora completato per la giovane età, debba convivere da un lato con l’idolatria e dall’altro con l’invidia e la cattiveria. E a volte fatica a reggere questa pressione. Il potere dell’invidia è forse il male più grande che c’è».
È la stessa invidia di chi dice «Adani è prigioniero del proprio personaggio»?
«Questo concetto è alimentato da altri che fanno il mio lavoro e non mi prendono per quello che sono, coi miei argomenti, la mia opinione e la mia passione. La mia forza è quella di avere argomenti, che non vuol dire avere il consenso: io non vivo per il consenso, cerco di vivere per un senso del giusto che è dato dai miei argomenti e ci tengo continuamente a dimostrarlo. Sento che chi la pensa diversamente spesso non si concentra sugli argomenti».
Il divorzio da Sky come è andato?
«In un modo quasi incomprensibile dal punto di vista della trasparenza: sono stato oscurato senza capire il motivo e la scelta di separarsi non mi è mai stata spiegata. C’è stato un comportamento subdolo e irrispettoso».
Colpa del dualismo con Massimiliano Allegri?
«Non posso crederlo. E non sento nemmeno di dubitarne. Credo anzi che abbia fatto bene alla comunicazione in Italia, agli appassionati e a Sky stessa. La comunicazione per me è questo: un confronto che suscita interesse e dà la possibilità di pensare».
Come si prepara?
«Non ho un piano prestabilito, mi faccio trasportare in modo naturale da una partita, da un articolo, da uno spunto. Oggi ci sono tanti strumenti che ti consentono di rispettare il mestiere di comunicatore».
La Bobo Tv è il suo manifesto?
«Credo che abbia cementato un nuovo modo di comunicare: la prima differenza è nel fatto che abbiamo tutto il tempo che vogliamo e in quello emerge sempre l’uomo, con il suo eccesso, la sua spontaneità, la sua libertà. La nostra è quasi una compagnia, che esce dai canoni prestabiliti, con attenzione all’aspetto più importante, che è il contenuto. Altrimenti la gente non ti segue».
Lei ora è anche un volto Rai e al Mondiale la Bobo Tv sbarcherà sul canale più istituzionale. Rischiate di snaturarvi?
«La chiave è essere se stessi, senza tenersi, senza gestirsi, parlando con la testa e con il cuore nei tempi che ti sono concessi. Se no è troppo facile: ci sono tantissimi ex calciatori che parlano, ma la domanda è “quanti sono interessanti?” Per me, pochi».
Cassano non le spara troppo grosse?
«Antonio è sempre estremo. Ha giocato nel Real e in lui c’è sempre la purezza del ragazzo di Bari Vecchia che non dimentica da dove è partito. Credo che tutti lo trovino interessante: è dirompente e si prende la responsabilità di ciò che dice, coi suoi errori, i colpi di genio, gli eccessi».
Legge anche altre cose, oltre a quelle legate al calcio?
«Rimpiango di non aver studiato, perché non avevo passione. Ho una comunicazione da strada, non da scuola. Faccio con quello che ho, per rispettare il mio compito: avvicinare la gente al calcio».
È religioso?
«Penso che la fede mi abbia migliorato come uomo. Per me Dio è amore e lo sento, come sento costantemente quello della mia povera mamma, in una canzone, nella brezza mattutina, in una tazza di tè. Lo riconosco ovunque ed è questa la mia forza in più. Non è un percorso di preghiera, ma di avvicinamento costante a Dio».
È geloso della vita privata?
«Cerco di proteggerla e di godermela in silenzio. Convivo da due anni e mi sono trasferito a Milano».