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 2022  ottobre 25 Martedì calendario

Intervista a Claudio Marazzini, presidente della Crusca

Sono 152 le pale appese nell’omonima sala al pianterreno della Villa Medicea di Castello, a Firenze, storica magione che ospita l’Accademia della Crusca, fondata 440 anni fa. Ogni cruscante ha diritto alla sua pala. È andata perduta quella di Galileo Galilei, ma fra i 150.000 volumi custoditi in questa cattedrale della lingua italiana ne resta il disegno: raffigura un cannocchiale.
Oltre allo stemma, la pala reca lo pseudonimo del titolare, accompagnato da un motto. Se Papa, cardinali e vescovi traggono il loro dal Vangelo, i cruscanti pescano quasi sempre da Petrarca o da Dante. Il professor Claudio Marazzini, dal 2014 presidente dell’Accademia, ha scelto di chiamarsi Boreale, un omaggio al conterraneo Vittorio Alfieri, che scrisse d’esser nato «là, dove Italia boreal diventa». Quanto alla massima, «Sotto neve pane», l’ha presa da un proverbio toscano del Giusti. Ma è l’immagine a rendere bene lo Zeitgeist, lo spirito del tempo: il Monviso, che Marazzini contempla dal balcone della sua casa di Torino meditando di andarci a sciare, e il Frecciarossa con cui raggiunge Firenze.
Qua dentro, nella Sala delle Pale, gli accademici si riuniscono almeno quattro volte l’anno. Non litigano mai, noblesse oblige, ma qualche diatriba ogni tanto esplode. L’ultima ha riguardato Giusto, sbagliato, dipende (Mondadori), primo libro della Crusca rivolto al grande pubblico, subito entrato nella classifica dei 10 più venduti. «Avrebbe dovuto intitolarsi Matita rossa, matita blu, ma fra di noi non eravamo tutti d’accordo su un’opera che affronta la norma linguistica. Quel “dipende” ha salvato capra e cavoli», rivela Marazzini.
Il suo parere in materia qual è?
«Il volume ha per sottotitolo Le risposte ai tuoi dubbi sulla lingua italiana. Un qualche indirizzo dobbiamo pur darlo».
Già, siete la Cassazione lessicale.
«Giovanni Nencioni fondò il giornale La Crusca per voi e aprì alle consulenze dopo la sottoscrizione lanciata nel 1990 da Indro Montanelli per salvare l’accademia, che stava fallendo. Lo ringraziò così. Era un linguista tollerante, mai arcigno. Gli abbiamo reso omaggio».
Quanti sono i cruscanti?
«Per statuto, 20. In realtà oggi 45, perché, dopo cinque anni di permanenza e raggiunti i 70 di età, si diventa emeriti e soprannumerari. Io sono fra costoro».
E lo rimanete a vita?
«Sì. Però nessuno riceve neppure un centesimo. Ogni anno lo devo precisare nella relazione alla Corte dei conti, stupita dall’assenza della voce “compensi”».
Come si diventa cruscanti?
«Per cooptazione. Non si fa domanda. Bisogna essere candidati da cinque accademici ordinari. Si vota a scrutinio segreto. In passato fu così anche per Giacomo Leopardi, Alessandro Manzoni, Vincenzo Monti, Giosue Carducci, Antonio Rosmini, Voltaire e William Ewart Gladstone, per quattro volte primo ministro britannico nell’Ottocento».
Ammettete anche cruscanti stranieri.
«Accanto agli accademici corrispondenti senza diritto di voto, abbiamo quelli esteri in tutti i continenti, tranne l’Africa. Uno abita in Australia, un altro insegna l’italiano a Pechino».
Questa sede è vostra?
«No, del Demanio. Un comodato oneroso: le spese sono a nostro carico. È stata dichiarata dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità. Il retro si affaccia sul giardino disegnato dal Tribolo, il progettista del parco di Boboli a Firenze. È descritto dal Vasari. L’edificio rientrava nella tenuta della Petraia, dove abitò Vittorio Emanuele II nei sei anni in cui Firenze fu capitale del Regno d’Italia. A 150 metri sorge la villa che ospitò Carlo Collodi mentre scriveva Pinocchio».
Chi vi dà il sostegno economico?
«Quando fui eletto, la situazione era tragica. La Regione Toscana ci aveva tagliato un quarto del bilancio. Ci hanno salvato i governi Monti, Renzi e Conte. Oggi siamo, con i Lincei, l’unica accademia finanziata da una legge dello Stato».
Accademia della Crusca che nome è?
«Antifrastico».
Figura retorica: una parola con un significato opposto a quello proprio.
«Esatto. Proteggiamo il fior di farina, non la crusca. Però ha preso il nome dallo scarto che va buttato. Infatti nel nostro emblema si legge “Il più bel fior ne coglie”. Anche se oggi il pane integrale dal fornaio costa più di quello bianco».
Quando s’innamorò della lingua?
«Già alle elementari mi piaceva scrivere e parlare. Alla scuola Alfieri di Torino, il maestro Febo mi chiamava in cattedra a raccontare i libri che avevo letto, dai romanzi di Emilio Salgari a Oliver Twist».
Conosce solo l’italiano?
«Anche il francese, da buon piemontese. Ma le cene di famiglia sono in inglese, perché mia figlia è fidanzata con un giovane greco che non sa l’italiano».
Il «Vocabolario degli Accademici della Crusca» si pubblica ancora?
«No. Uscito 410 anni fa, fu il primo dizionario della nostra lingua. Nel 1923, alla quinta edizione, venne stroncato dal fascismo. Era giunto al lemma “ozono”. Il ministro Giovanni Gentile lo affidò all’Accademia d’Italia, che però nel 1943 era ancora ferma al volume A-C».
Mai pensato di riprenderlo?
«Abbiamo preferito, in accordo con il Cnr, concentrarci su opere tutte consultabili online. È nato così il Tesoro della lingua italiana delle origini, il Tlio, che copre fino a Boccaccio. Sono in cantiere un vocabolario dantesco e uno postunitario. E abbiamo digitalizzato il Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, il più gigantesco mai immaginato, 21 volumi più le appendici».
Quanti quesiti vi arrivano dal web?
«Una trentina al giorno. L’ufficio di consulenza è diretto dal vicepresidente Paolo D’Achille e da Marco Biffi, che sono anche i curatori di Giusto, sbagliato, dipende. Vi operano accademici, assegnisti di ricerca e giovani che hanno vinto le nostre borse di studio».
«Sfiga» nel 1994 era considerato «volgare» dai dizionari. Oggi è classificato come «colloquiale». Chi lo ha deciso?
«Il popolo. Nel primo dizionario etimologico della nostra lingua, pubblicato nel 1685 dal cruscante Gilles Ménage, c’è “cazzo”, da “caput” nel significato di “estremità”, con questa nota: “S’usa anche da gli Italiani, per interiezzione” quando sono irati, dolenti, ammirati».
La vostra Annalisa Nesi ha curato «L’italiano e i giovani». Ma sono degne di studio espressioni come «ansiarsi», «berafatto», «caga», «ciòspa», «imbelinarsi», «messo giù da gara», «skypiamo»? Le ho prese dall’indice del libro.
«Degne di registrazione. Sono la traccia di qualcosa di effimero. La superficie della lingua è un mare mosso dal vento: s’increspa, ma poi le onde spariscono».
Del dilagante «anche no» che mi dice?
«Non lo uso. Come “attimino” e “piuttosto che” al posto di “o”. Li sconsiglio».
Nel secolo scorso i lessicologi erano così attenti al linguaggio di strada?
«Meno. Tuttavia Bernardino Biondelli a Milano raccolse le “lingue furbesche”, cioè il gergo della malavita, nel 1846».
Di che sta morendo il congiuntivo?
«La consecutio temporum funziona sulla base del latino. Il congiuntivo con significato di eventualità postula sfumature che oggidì tendiamo a semplificare. Nel linguaggio scritto è deprecabile».
«Sé stesso» con o senza accento?
«Non v’è dubbio: la razionalità grammaticale lo impone. Il nostro compianto accademico Luca Serianni nell’ultima lezione alla Sapienza di Roma confessò un’unica, inderogabile pretesa sugli studenti: che accentassero il “sé”. Ma vince il conformismo di chi a scuola imparò la forma “se stesso”. Giusto, sbagliato, dipende ammette entrambe le grafie».
Perché sui giornali si entra «nel mirino», il traffico va «in tilt», si scatena «la caccia all’uomo», le vite «si spezzano»?
«“Tilt” è stupendo, prova che la lingua sopravvive alla realtà. I titolisti che lo usano sapranno che cos’era il flipper?».
Potrebbe dire ai miei colleghi che le parole straniere al plurale restano invariate, se figurano nel dizionario italiano?
«Senz’altro. Quindi le “royalty”, non “royalties”, come “film” e “bar”. Ammetterei un’eccezione facoltativa per “curricula”, plurale del latino “curriculum”».
«Settimana prossima» è corretto?
«No, senza l’articolo “la” è una forma lombarda. A me scappa talvolta “solo più 10 minuti”. Se lo sente dire da qualcuno, può giurare che è un piemontese».
Che cosa pensa dello schwa, la «e» rovesciata in sostituzione di una vocale, come desinenza indistinta di parole che divergono al maschile e al femminile?
«Sono fermamente contrario. Per di più è inapplicabile: come si pronuncia un suono indefinibile? Dopo tanta fatica per creare i corrispondenti femminili di tutti i sostantivi maschili, mi pare un’aggressione linguistica ingiustificata».
È pronto per un esamino finale? Sa dirmi che cos’è il furàno?
(Espressione di sconcerto). «Il...?»
Furàno. Composto organico da azione dell’acido solforico sulla crusca.
«Ah, c’entra la crusca».
Significato del verbo abburattare?
«Separare la farina dalla crusca con il buratto. Lei sa che cos’era il buratto?».
No.
«Un tessuto di crine. Agitato da una manovella, tratteneva la crusca e faceva cadere di sotto la farina bianca».
Giulio Nascimbeni mi ripeteva spesso: «L’unico libro che non ti stancherà mai è il dizionario».
«Edmondo De Amicis ne parlò nell’Idioma gentile. Gabriele D’Annunzio ne prendeva brandelli per introdurli nelle proprie opere. Alessandro Manzoni ci dialogava polemicamente. Nei gialli del greco Petros Markaris il commissario Charitos consulta i vocabolari per rilassarsi. Sì, aveva ragione Nascimbeni».