il Giornale, 25 ottobre 2022
A 80 anni di El Alamein
Tra il 23 ottobre e il 5 novembre 1942, ottant’anni fa, il deserto attorno a El Alamein ribolliva di esplosioni. Dal mare alla depressione di Qattara, le forze italotedesche sono investite da una tempesta d’acciaio quasi continua. È quella che gli storici chiamano seconda battaglia di El Alamein, lo scontro che metterà la parola fine ad ogni velleità dell’Asse in Nord Africa. La valanga inarrestabile che piomba sulle truppe italiane e tedesche è da lungo tempo annunciata e le strategie di Erwin Rommel – rapidità, inganno e colpi mano – che hanno a lungo fatto sperare in una duratura riscossa contro gli inglesi, questa volta, non possono più ribaltare un’insostenibile divario di mezzi e materiali.
Erwin Rommel era arrivato in Libia nel febbraio del 1941, dopo che gli inglesi avevano inflitto gravi sconfitte alle forze italiane. Nel gennaio 1942 le sue truppe, nonostante le difficoltà logistiche dei rifornimenti, portarono avanti una controffensiva di alleggerimento che risultò così efficace da far tornare in auge l’idea di arrivare sino al Canale di Suez. Dopo aver perso Bengasi a gennaio, gli inglesi riuscirono a rallentare l’Africa Korps, fino a maggio. Quindi le forze tedesche e italiane furono in grado, facendo strage di carri armati britannici, di prendere Tobruk e spostarsi verso est, raggiungendo le difese britanniche a El-Alamein il 30 giugno 1942. Rommel attaccò questa linea il 1 luglio, ma il giorno successivo il comandante britannico, il generale Claude Auchinleck, contrattaccò. E si sviluppò una battaglia di logoramento. A metà luglio Rommel era ancora a El-Alamein, bloccato.
Questo il prodromo della tragedia dei reparti italiani e tedeschi che da quel momento videro le forze nemiche, posizionate davanti a loro, crescere esponenzialmente. Dopo sei settimane di continui rifornimenti di uomini e materiali l’Ottava armata britannica, al comando del generale Montgomery, era pronta a colpire con l’operazione «Lightfoot»: schierava circa 200mila uomini e mille carri armati, tra cui circa trecento M4 Sherman decisamente superiori alla maggior parte dei mezzi dell’Asse. A fronteggiarli 100mila uomini con attrezzature in gran parte inadeguate e 490 carri armati di cui solo 38 erano Panzer IV tedeschi e 35 semoventi 75/18 italiani, gli unici in grado di poter competere davvero con gli Sherman. Questo senza contare i mille aerei della Raf contro i 198 schierati dall’Asse e il divario delle artiglierie. Rommel avrebbe dovuto ripiegare prima? Di certo conosceva la situazione e aveva chiesto a ripetizione rifornimenti che nessuno, in Italia e Germania, avrebbe potuto mandargli. Di certo Hitler gli ordinò di non ritirarsi anche quando ormai la situazione, a novembre 1942, era disperata, la volontà del Führer fu sostanzialmente aggirata per salvare il salvabile. E nel non salvabile i reparti italiani pagarono il prezzo più alto, per la loro cronica mancanza di mezzi di trasporto. Alcuni reparti, come i paracadutisti della Folgore si immolarono scientemente per contrastare sino all’ultimo i reparti britannici. Bombe molotov e armi di fortuna contro carri armati con corazze in acciaio spesse cinque centimetri.
Questa lotta coraggiosa di un reparto d’élite che fu sacrificato e mandato a combattere in un contesto completamente diverso da quello per cui era stato addestrato è stata raccontata relativamente poco. Ecco perché vale la pena di leggere I paracadutisti italiani a El Alamein (Leg, pagg. 128, euro 16) di Gianni Oliva. Lo storico ripercorre la vicenda che ha portato la Folgore sino a quell’inferno di sabbia. Come spiega nell’introduzione, della battaglia e della Folgore «si è sempre parlato poco e con disagio». Perché? «El Alamein è stata rimossa perché associata al combattetismo fascista e all’arditismo... Confusioni della memoria storica, che qualcosa ricorda e qualcos’altro dimentica, e che spesso sovrappone l’ideologia alla ricostruzione dei fatti».
Gianni Oliva i fatti invece li ricostruisce con molta chiarezza. L’Italia, come su molti altri versanti, arrivò con grande ritardo anche alla disciplina del paracadutismo militare. Poi, in un contesto sempre più difficile, accelera reclutando i volontari per la Scuola di Tarquinia. Ne nasce un reparto dove gli uomini sono speciali, i mezzi molto meno. Il sogno dei comandi, a partire dai progetti di Italo Balbo, era ripetere le mirabolanti imprese dei paracadutisti tedeschi. La realtà tragica? Quello che si dovette chiedere a questi super soldati fu di stendere un velo di carne e coraggio per fermare lo strapotere logistico e tecnologico degli Alleati. E la Folgore lo fece sino all’ultimo, con grande scorno del generale Montgomery che non volle mai ammettere, nemmeno a posteriori, l’entità della disperata resistenza dei reparti italiani. Gliela ricordò anni dopo, con una amarissima lettera, Paolo Caccia Dominioni, che ad El Alamein ha combattuto, di cui ha progettato il sacrario, e che avendo militato anche nelle file dei partigiani non si può certo accusare di retorica fascista: «L’enorme valanga, per quattro giorni e quattro notti, fu ributtata alla baionetta, con le pietre, le bombe a mano e le bottiglie incendiarie fabbricate in famiglia, home made. La Folgore si ridusse a un terzo, ma la linea non cedette neppure dove era ridotta a un velo».
Questa storia a ottant’anni di distanza deve ormai essere raccontata senza incrostazioni ideologiche. Prendendo atto del disastro militare fascista ma anche del coraggio disperato e del senso della patria, dimostrato difendendo un anonimo brandello di deserto perché c’era piantato un tricolore.