il Fatto Quotidiano, 25 ottobre 2022
Intervista a Christian Arbeit, il portavoce dell’Union Berlin
Berlino. Domenica l’Union Berlin ha perso 2-0 con il Bochum, l’ultima in classifica, nonostante questo guida la Bundesliga dalla prima giornata. L’Union è stato per decenni la terza squadra di Berlino. Durante gli anni della Germania Est era considerato il club dei sindacati. Guardato con sospetto dal regime e con risultati poco entusiasmanti. I tifosi lo chiamano Eiser Union (unione di ferro) che è anche il titolo dell’inno, scritto e interpretato dalla regina del punk tedesco Nina Hagen. La squadra non ha un proprietario, i tifosi sono i padroni, e gioca in uno stadio dove il 70 per cento del pubblico non ha posti a sedere. Christian Arbeit è il direttore della comunicazione dell’Union, ma sottolinea che il ruolo più importante è “portavoce dello stadio”, anche quello proprietà dei tifosi dal 2009.
In testa alla Bundesliga. Se glielo avessero detto qualche anno fa?
Una fiaba per bambini. Cinque anni fa, in questo periodo eravamo in seconda divisione. Nel girone di andata non abbiamo perso nemmeno una partita. A guidare la squadra c’era già Uri Ficher. Ma oggi dopo le prime 11 giornate essere primi in classifica è un sogno, una pazzia.
Per quanto ancora? Cosa vi aspetta?
In tre settimane abbiamo quattro partite di campionato e due di coppa. Sarò l’inferno, ma anche molto eccitante. Nulla è impossibile, ma il mister è molto chiaro: pensiamo solo a come vincere la prossima partita.
È cambiata la pressione sulla squadra?
Non ci facciamo attenzione. Come club siamo concentrati su noi stessi, su come gestire le partite, i tifosi, lo stadio. È divertente vedere come tutti attorno a noi siano eccitati. Giocatori, team, tifosi stiamo spalla a spalla e ci teniamo ben ancorati a terra.
C’è troppa attenzione internazionale?
Questo interesse ci rende ancora più orgogliosi della nostra unicità, della nostra storia. Stiamo mostrando che non tutti i club devono essere uguali. C’è un modo diverso di gestire una squadra e si può arrivare lo stesso in cima alla classifica.
In Germania il 51% della proprietà delle squadre deve essere pubblico. Voi lo siete al 100%
Sì, oltre 46mila soci. È una scelta. Non siamo gli unici, anche il Friburgo ha una struttura simile alla nostra. Ma tutte le altre squadre funzionano diversamente, hanno una società e un grande azionista che decide tutto. Qui non è così, questa è una comunità. E anche in un business difficile come il calcio professionistico una collettività può essere profittevole.
Quindi non è solo una squadra di calcio?
Questa è la storia di un quartiere, Kopenick. Lo stadio è qui da 100 anni, in mezzo alle case, accanto al fiume. Non come gli altri club che costruiscono i loro stadi nella periferia in mezzo ai parcheggi.
Per ristrutturare lo stadio non avevate i soldi, sono venuti i tifosi a lavorare…
Certo, io ho preso le vacanze dal mio vecchio impiego. 2500 volontari, 150mila ore di lavoro messe a disposizione. Ogni mattina facevamo i gruppi: un carpentiere metteva assieme un paio di impiegati, un infermiere, un’insegnante. È stata una delle esperienze più importanti che abbia mai fatto.
Cos’è l’Union Berlin per il quartiere, per Kopenick?
È quello che fa. Ogni martedì qui accanto allo stadio la squadra distribuisce pasti caldi e cibo in scatola. Questo fine settimana ci occupiamo della pulizia del fiume. Poi ci sono eventi grandi, come la famosa festa di Natale allo Stadio. L’ho già detto, siamo una comunità.
Durante la Ddr la squadra è stata il simbolo della resistenza, adesso siete l’immagine dell’ostalgia?
Entrambe le cose sono vere. Ma ogni tanto questo viene romanzato più del necessario. Nella Germania dell’Est non potevi essere una squadra d’opposizione, come oggi bisogna rispettare delle regole per partecipare alle coppe europee. Quello che facciamo all’Union, da sempre, è seguire i nostri valori.
Un esempio pratico?
Non si può giocare in Bundesliga senza grandi sponsor. Noi li abbiamo e li coinvolgiamo in tutto. C’è una differenza nell’avere un’azienda che butta i suoi soldi nel contenitore club e uno sponsor che accetta la cultura della nostra squadra. Se uno dei nostri partner volesse far volare un piccolo dirigibile sopra lo stadio durante la partita, cosa che è successa altrove, è il mio compito spiegargli che facendolo la gente li odierebbe. Ci sono diversi modi di costruire un club. Giocatori, dipendenti, stampa, tifosi anche lo stadio ha diritto di dire no. Nessuno ha sempre ragione e il rispetto è alla base delle relazioni tra i vari gruppi che compongono la squadra.
Quanto la vostra storia è simile a quella del Leicester? Potete vincere la Bundesliga?
Tra i giocatori che vinsero la Premier League nel 2016 c’era Robert Huth. Un giocatore di Berlino, prima di andare nel Regno Unito era nelle nostre giovanili. Speriamo che porti bene. Ma anche se questa possibilità svanisse, l’importante è questo momento. Poter dire a tutti, anche in Italia, che esiste un altro modo di immaginare e gestire le squadre di calcio, rimanendo comunque abbastanza competitivi per ambire alla vittoria del campionato.