il Fatto Quotidiano, 25 ottobre 2022
Salute, i dossier aperti sul tavolo di Schillaci
C’è il caso della procreazione assistita, quello dello screening neonatale che consente di identificare malattie come la Sma (atrofia muscolare spinale), quello dei test genetici per i tumori al seno, quello delle protesi acustiche. Sono alcuni dei nuovi Lea, i Livelli essenziali di assistenza che il Servizio sanitario nazionale – pubblico e in convenzione – deve garantire: il loro aggiornamento risale al 2017 ma dal 2018 non ci sono ancora le tariffe, cioè le somme che lo Stato paga per ogni prestazione. Quindi le Regioni vanno ciascuna per conto proprio, quelle ricche del Nord meglio di quelle povere del Sud, tra le proteste delle associazioni dei malati. Antonio Gaudioso, capo della segreteria tecnica del ministro uscente Roberto Speranza, ci ha lavorato fino all’ultimo, anche riscrivendo il decreto. Tutto inutile.
Il 28 settembre nell’ultima riunione le Regioni hanno chiesto ancora tempo per studiare l’impatto finanziario del provvedimento. Non è stato formalizzato il “no” ma chiedono più soldi, circa 3-400 milioni e cioè quasi il doppio di quelli stanziati. Alcune, Lombardia in primis, hanno anche interesse a mantenere alto il volume delle prestazioni erogate – per lo più da privati convenzionati – ai cittadini di fuori Regione, un business da oltre 4 miliardi di euro l’anno su un Fondo sanitario nazionale di circa 120; altre, l’Emilia-Romagna in testa, sottolineano l’ulteriore aggravio dovuto ai costi energetici che a fine anno può portare il deficit complessivo a 5 miliardi. Il ministero dal canto suo ha fatto valere che le Regioni ricevono nel complesso 380 milioni di euro l’anno da sei anni per i nuovi Lea. Li hanno attuati? Come li hanno attuati? Non si sa. Non sono ancora pubblici i dati del 2020 e del 2021.
Lo ricordava giovedì scorso Tonino Aceti, presidente di Salutequità, commentando la Relazione sullo stato sanitario del Paese 2017-2021, pubblicata dopo otto anni di silenzio: “Lasciare indietro documenti ufficiali come questi incide sulla corretta capacità di programmazione del Ssn. È necessario pubblicare anche i dati (con il dettaglio regionale) sulla garanzia dei Lea 2020-2021, quelli sullo stato di attuazione dei Piani regionali di recupero delle liste d’attesa e approvare il decreto tariffe per l’attuazione dei nuovi Lea del 2017”. È già tutto sul tavolo del neoministro della Salute a cui Speranza ha passato ieri le consegne, Orazio Schillaci, docente di Medicina nucleare e presidente della relativa società scientifica, rettore dell’Università di Roma Tor Vergata dal 2019. È un tecnico scelto da Fratelli d’Italia senza appartenenze politiche note, che gode di stima trasversale ma chissà se avrà il peso, il mandato e soprattutto i soldi per frenare il declino del Ssn e la galoppante privatizzazione delle cure. Speranza, in parte anche prima del Covid con il Conte-1, qualche miliardo in più l’ha ottenuto. Il tecnico Patrizio Bianchi per la scuola no.
A Schillaci toccherà anche l’attuazione del Pnrr e in particolare la nuova sanità territoriale, sempre che Giorgia Meloni non mandi tutto all’aria: dall’Ue arriveranno i soldi per le case e gli ospedali e di comunità che dovrebbero alleggerire il carico sul sistema ospedaliero, ma nessuno lavorerà nelle nuove strutture se non ci sarà l’accordo (sfiorato da Speranza) con i medici di famiglia e non verrà meno il tetto alle retribuzioni. Al neoministro, peraltro, toccheranno anche le altre emergenze, dai Pronto soccorso al collasso alle liste d’attesa che scoppiano. E le politiche anti-Covid. Negli anni della pandemia la spesa sanitaria pubblica è cresciuta, ma le tabelle del governo Draghi prevedono che torni a scendere verso il 6 per cento del Pil anziché avvicinarsi al 9-11 per cento dei Paesi europei più virtuosi. “Il governo e Schillaci iniziano un cammino in salita tra guerra, recessione e inflazione, con la riduzione programmata della spesa sanitaria, un Pnrr molto discusso e una situazione complessa con le Regioni che non vedono l’ora di togliere poteri al governo”, osserva Ivan Cavicchi, che proprio a Tor Vergata insegna Sociologia dell’organizzazione sanitaria e Filosofia della medicina, già responsabile sanità della Cgil e direttore di Farmindustria ai tempi del primo governo Prodi, in questi anni molto critico (da sinistra) sulla gestione Speranza. “Schillaci? Ottimo come medico, professore e rettore, ma i ministri tecnici non hanno mai fatto grandi cose alla Sanità”.
La Relazione sullo stato sanitario del Paese è sconfortante. Conferma la riduzione della speranza di vita: meno 1,3 anni per gli uomini (da 81,1 nel 2019 a 79,8 nel 2020) e meno 0,9 per le donne (da 85,4 a 84,5), recuperati in buona parte al Nord nel 2021 ma non al Sud e nemmeno al Centro. La partecipazione agli screening oncologici è scesa tra il 10 e il 20 per cento, quindi aumenteranno i tumori scoperti in fase più avanzata. Torna a crescere il tasso di rinuncia alle cure. Ma i numeri nazionali contano poco, siamo un Paese in cui la Campania (dati 2019) ha una mortalità cosiddetta evitabile (dovuta cioè agli stili di vita e alle carenze di prevenzione e trattamenti) di oltre il 20 per cento, mentre al Nord è sotto il 15.