La Stampa, 24 ottobre 2022
Di Maio saluta la politica
I ghigni che hanno accompagnato la sua uscita di scena sono destinati a spegnersi e a scivolare via. Perché non riusciranno, congiuntivi fantozziani e soprannomi dileggianti, a descrivere davvero fino in fondo chi è stato Luigi Di Maio per questo Paese. Capace di cavalcare in giacca e cravatta l’antipolitica alla conquista dei Palazzi di Roma, da mosca bianca del Movimento del vaffa, e di finire sconfitto nel momento in cui aveva ogni cosa nelle sue mani.
«Il più giovane della storia repubblicana», si è sentito dire spesso, da vicepresidente della Camera, da vicepremier, da ministro degli Esteri. Eppure, è un ragazzo che non è stato ragazzo mai. Entrato nel Movimento 5 stelle a 21 anni e a Montecitorio cinque anni più tardi, nel 2013. Altri cinque anni ed è ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico. L’unico vero miracolo grillino, in cui si è realizzato il sogno e consumato il contrappasso: l’uomo del popolo che diventa élite finché il suo popolo non lo riconosce più. Con lo 0,6 per cento incassato alle ultime elezioni, il passaggio di consegne alla Farnesina e le dimissioni dalla guida di Impegno civico, a 36 anni Di Maio chiude il primo capitolo della sua storia politica. E ora che tutto finalmente si posa, guardando indietro a questi dieci anni bruciati in fretta, tra mille acrobazie, come un fuoco d’artificio impazzito, si fa ancora una tremenda fatica a capire chi sia davvero Luigi Di Maio.
Il sacrificio per il potere, si dirà. Eppure, non può essere solo questo. Il senso di rivalsa, forse, che arriva da una provincia dimenticata del Sud, come è Pomigliano d’Arco, e che lo porta a esultare dal balcone di palazzo Chigi per aver sconfitto la povertà. E insieme l’abilità, persino il talento, di essere tutto e il contrario di tutto. L’uomo che voleva uscire dall’Euro e che chiese l’impeachment di Sergio Mattarella, che si lasciò cullare dalle fascinazioni prima russe e poi cinesi, che vedeva nel Pd un nemico e che incontrò in Francia i gilet gialli, oggi è alfiere della stabilità, uomo di fiducia di Mario Draghi e amico del Pd, atlantista ed europeista convinto. Il giustizialista che per primo, senza imbarazzi, ha chiesto scusa per il suo giustizialismo: «Scurdammoce ‘o passat’».
Gira voce che ora voglia dedicarsi al lobbismo. Entrare alla Bains, società di consulenza americana tra le più importanti al mondo, o magari fondarne una sua, mettendo a frutto la rete di conoscenze costruita nel tempo, fin dal primo giorno in cui ha imparato ad annodare la cravatta. Mentre i grillini sbraitavano contro i poteri forti, lui ci andava a cena insieme. E se poteva, piazzava i suoi amici, compagni di scuola e di avventura politica, su poltrone e poltroncine, come ha fatto chiunque abbia amministrato il potere in Italia prima di lui. «Giggino core d’oro», lo chiamavano i suoi detrattori. Ma è la capacità di ascolto e di dialogo, di costruire un rapporto plasmando la propria identità su quella del suo interlocutore, senza mai scontentare nessuno, ad avergli permesso di superare scivoloni ed errori politici. Da ultimo, la scissione dal Movimento, progettata e orchestrata per dare maggiore stabilità politica al governo Draghi e per assestare un colpo mortale a Giuseppe Conte, finita invece per terremotare palazzo Chigi e ridare forza all’identità dei Cinque stelle in campagna elettorale. Nessuno si ricorderà di Impegno civico. «Un cartello elettorale», così l’ha infilzato a morte Bruno Tabacci, unico eletto sotto quell’insegna. Ma Di Maio, a 36 anni, ha ancora cinque o sei vite di fronte a sé. L’unica vera domanda da porgli, oggi, è se abbia voglia di rallentare, prendere fiato, e decidere una volta per tutte, magari, chi è davvero Luigi Di Maio.